Cap.
1 – Introduzione: chi sono io?
Per esempio potresti
pensare che “sono una persona unica, un essere dotato di certi potenziali; sono
gentile, ma a volte crudele; amorevole, ma a volte ostile; sono padre e
avvocato, mi piace la pesca e la pallacanestro …”. E così la tua lista di
sentimenti e pensieri può proseguire.
Tuttavia, vi è un altro
processo fondamentale sottostante l’intero procedimento per stabilire
un’identità. Qualcosa di molto semplice si verifica quando rispondi alla
domanda: “Chi sei tu?”. Quando descrivi o spieghi, o quando stai soltanto
percependo nel tuo intimo il tuo “Sé”, ciò che stai facendo in realtà, che tu
lo sappia o no, è tracciare mentalmente una linea o confine attraverso l’intero
campo della tua esperienza, e percepirai o chiamerai tutto ciò che si trova
all’interno di tale confine il tuo “Sé”, mentre percepirai come il tuo “non-Sé”
tutto ciò che si trova all’esterno di tale confine. La tua auto-identità, in
altre parole, dipende interamente da dove tracci la linea di confine.
Così quando dici “il mio
Sé”, tracci una linea di confine tra ciò che è te e ciò che non è te. Quando
rispondi alla domanda “Chi sei tu?” descrivi semplicemente ciò che si trova
all’interno di tale linea. La cosiddetta crisi di identità si verifica quando
non sai come o dove tracciare tale linea. In breve, “Chi sei tu?” significa
“Dove tracci il confine?”.
Il fatto più interessante
circa tale linea di confine è che può spostarsi, e ciò accade spesso. La linea
può essere dunque ri-tracciata.
La linea di confine più
comune che gli individui tracciano o che riconoscono come valida è quella della
pelle che circonda tutto l’organismo.
Il confine tra la mente e
il corpo è tracciato e la persona si identifica rigidamente con il primo.
In breve, ciò che
l’individuo ritiene essere la sua auto-identità non comprende tutto l’organismo nel suo complesso, ma solo un
aspetto di tale organismo, e cioè, il suo ego. Egli si identifica quindi con
un’autoimmagine mentale più o meno
precisa, con processi emotivi e intellettuali associati all’autoimmagine.
“Transpersonale” significa
che all’interno dell’individuo si sta verificando un processo che, in un certo
senso, va oltre l’individuo.
Cap
2. – A Metà
Anche se il dolore e il
piacere esistono nel mondo della natura, non costituiscono problemi dei quali
preoccuparsi. Quando un cane soffre, guaisce. Quando non ha dolore, non se ne
preoccupa; non teme il dolore futuro, né si duole di quello passato. La
questione sembra essere del tutto semplice e naturale.
Diciamo che è vero tutto
ciò, perché, molto semplicemente, la natura è muta; tuttavia, vi è un motivo
per cui ciò non è convincente. Il grande biochimico Albert Szent-Gyorgyi offre un esempio bizzarro: “quando raggiunsi l’istituto di Studi
Superiori di Princeton, lo feci nella speranza che, dandomi da fare con tutti
quei grandi fisici atomici e matematici, avrei appreso qualcosa sulle materie
viventi. Tuttavia, appena rivelai che in ogni sistema vivente ci sono più di
due elettroni, i fisici non volevano più rivolgermi la parola. Nonostante tutti
i loro computers, non erano in grado di dirmi quali potessero essere le
funzioni del terzo elettrone. Il fatto notevole è che quest’ultimo sa
esattamente cosa fare. Così, il piccolo elettrone è a conoscenza di qualcosa
che tutti i saggi di Princeton ignorano; può quindi trattarsi solo di qualcosa
di molto semplice”.
Ogni decisione che
prendiamo, ogni azione, ogni parola si basa sulla costruzione, consapevole o
inconsapevole, di confini. Non mi sto riferendo unicamente al confine della
auto-identità – nonostante l’importanza che certamente essa riveste – ma a
tutti i confini nel senso più lato del termine. Prendere una decisione
significa tracciare una linea di confine tra quanto deve essere scelto e quanto
non deve esserlo.
Desiderare qualcosa
significa tracciare una linea di confine tra il piacevole e il non piacevole e
propendere per il primo.
Mantenere un’idea significa
tracciare una linea di confine tra i concetti che si ritengono veri e quelli
che si ritengono falsi.
Caratteristico del confine
è che, per quanto complesso e rarefatto possa essere, in realtà non delimita
altro che un interno opposto a un esterno. Per esempio, possiamo tracciare la
forma più semplice di una linea di confine quale il cerchio e ci accorgiamo che
si crea un interno e un esterno
Notate però che gli opposti
dell’interno e dell’esterno non esistevano in se stessi finché non abbiamo
tracciato il confine del cerchio. È la stessa linea di confine, in altre
parole, che crea una coppia di opposti.
In breve, tracciare confini
significa creare opposti. Possiamo quindi iniziare a intravedere che il motivo
per cui viviamo in un mondo di opposti è precisamente perché la vita, come noi
la conosciamo, è un continuo tracciare confini.
Il mondo di opposti è un
mondo di conflitti.
Quando Adamo peccò,
l’intero mondo di opposti, alla cui creazione aveva contribuito egli stesso, lo
maledisse, il dolore contro il piacere, il bene contro il male, la vita contro
la morte, la fatica contro il gioco; tutta la schiera di opposti in conflitto
si riversò sull’umanità.
La cosa più esasperante che
Adamo capì era che ogni linea di confine è anche una potenziale linea di
battagli, cosicché il solo tracciare una linea di confine significa prepararsi
a un conflitto.
Cercando di eliminare i
lati negativi e di accentuare gli aspetti positivi, si è dimenticato che il
positivo si definisce solo in termini di negativo.
Distruggere il negativo
significa distruggere contemporaneamente tutte le possibilità di godere del
positivo.
Per quanto le loro
differenze ci possano apparire evidenti, esse rimangono, nonostante tutto,
completamente inseparabili e reciprocamente interdipendenti, per il semplice
motivo che l’una non potrebbe esistere senza l’altra. In quest’ottica, non
esiste, evidentemente, interno senza esterno, su senza giù, vincita senza
perdita, piacere senza dolore, vita senza morte.
Cap.
3 – Territorio senza confini
Il segreto metafisico
ultimo, osando definirlo nel modo più semplice, è che nell’universo non
esistono confini. I confini sono illusioni, prodotti non della realtà, ma del
modo in cui tracciamo e redigiamo la mappa della realtà. Se da un lato è bene
rappresentazione il territorio con una mappa, è invece drammatico confondere i
due.
Con i numeri, quindi,
l’uomo costruì un nuovo tipo di confine, più astratto e generale, un
meta-confine, e poiché i confini hanno un potere politico e tecnologico, l’uomo
accrebbe con ciò la sua capacità di controllo sul mondo naturale.
Per semplificare, diremo
che il primo confine produce una classe. Il meta-confine produce una classe di
classi, chiamati numeri. Il terzo o meta-meta-confine produce una classe di
classi, chiamata variabile.
Dunque quando il buddista
dice che la realtà è vuota, egli intende che è priva di confini, non che tutte
le entità scompaiono semplicemente lasciando dietro di loro un puro vuoto del
nulla, una disgregazione monista indifferenziata.
Cap.
4 – Consapevolezza del non-confine
La coscienza dell’unità, in
breve, è la consapevolezza del non confine. Le parole, i simboli e i pensieri
stessi, in realtà, altro non sono che i confini, in quanto ogni qualvolta pensiamo
o usiamo una parola o un nome creiamo già dei confini.
Di tutti i confini
costruiti dall’uomo quello tra sé e non sé è fondamentale.
Il confine primario tra sé
e non sé è di importanza così fondamentale che tutti gli altri confini ne
dipendono.
Se non riusciamo a
cominciare a vedere attraverso il confine primario, non saremo più tanto
lontani dal senso della coscienza dell’unità.
In realtà, infatti, non
dobbiamo addossarci il compito di cercare di distruggere il confine primario e
ciò per una ragione estremamente semplice: il confine primario non esiste.
Come tutti i confini è solo
un’illusione.
Sembra che ogni qualvolta
cerchiamo un sé separato dall’esperienza, esso sparisca nell’esperienza.
Cercando la persona che prova l’esperienza, troviamo unicamente una persona che
prova un’altra esperienza: il soggetto e l’oggetto risultano sempre una cosa
sola. Poiché si tratta di un’esperienza alquanto impegnativa ci si può sentire
un po’ confusi, pensandoci su. Ma insistiamo ancora. Pensando a questo, ora, si
può trovare un’altra persona che ci stia pensando?
In altre parole, esiste una
persona che pensi al pensiero “Sono confuso”, o esiste unicamente il pensiero
“io sono confuso”? Sicuramente esiste solo il pensiero presente, perché se ci
fosse anche una persona che pensa il pensiero, pensereste dunque a chi pensa
che sta pensando il pensiero? È evidente che ciò che indiscutibilmente
riteniamo colui che pensa non è altro che il flusso dei pensieri presenti.
Tat
tvam asi, dicono gli
induisti. “Tu sei Quello. Il tuo reale sé è identico all’Energia ultima di cui
tutte le cose nell’universo sono una manifestazione”.
Cap.
5 – Il momento del non-confine
Il Maestro Zen Seppo dice: “Se
volete sapere che cosa significa l’eternità, essa non va oltre questo momento,
non l’avrete mai, per quante volte siate rinati in centinaia di migliaia di
anni”.
I nostri sensi di colpa
sono inseparabilmente connessi al passato, e trascinano con loro i tormenti
della depressione, dell’amarezza e dei rimorsi.
Il tempo quale confine
sovrapposto all’eternità, non è un problema di cui sbarazzarsi, ma un’illusione
che, in primo luogo, non esiste.
Molti, dopo aver capito
teoricamente che l’eternità non è un tempo perenno ma il presente senza tempo,
cercano di entrare in contatto con
questo momento senza tempo concentrando la loro attenzione sul momento presente
o su qualsiasi cosa di cui stanno attualmente avendo esperienza. Essi cercano
di prestare “semplice attenzione” al presente immediato.
Pur sembrando un
atteggiamento ragionevole, tuttavia esso non è pertinente. Cercare di vivere
nel presente senza tempo richiede tempo.
In breve, non si può usare
il tempo per uscire fuori dal tempo. Così facendo non facciamo altro che
rinforzare quanto vorremmo sradicare.
Quindi, prima di cercare di
sbarazzarci del tempo, vediamo prima se riusciamo a trovarlo. Se dopo averlo
cercato non lo troviamo, avremo già colto l’assenza di tempo.
Nella vostra consapevolezza
immediata e diretta, non vi è tempo – né passato né futuro, ma solo un presente
infinitamente mutevole, più breve di un mini-secondo e che tuttavia non ha mai
fine.
Cap.
6 – L’evoluzione dei confini
Con l’avvento del confine
primario, l’uomo rifiuta la morte, e quindi rifiuta anche di vivere senza un
futuro. In breve, l’uomo rifiuta di vivere senza tempo. Egli ha bisogno del
tempo, crea il tempo, vive nel tempo. La sopravvivenza diventa la sua speranza,
il tempo diventa la cosa più preziosa in suo possesso, il futuro diventa il suo
unico scopo. Il tempo, l’ultima fonte di tutti i suoi problemi, diventa la
fonte immaginaria di salvezza. Egli si lancia nel tempo … finché non viene il
suo tempo, ed egli si trova di fronte, come all’inizio, all’essenza del suo sé
separato; ed è la morte.
Cap.
7 – Il livello della persona: L’inizio della scoperta
Dietro l’infelicità fondamentale
della vita e dell’esistenza si trova l’embrione di un’intelligenza in via di
evoluzione, un’intelligenza particolare solitamente nascosta dal peso enorme
delle ipocrisie sociali. La persona che inizia a conoscere le sofferenze della
vita sta, allo stesso tempo, iniziando a risvegliarsi a realtà più profonde,
realtà più vere. La sofferenza distrugge la soddisfazione che traiamo dalle
ipotesi normali che ci creiamo sulla realtà, e ci spinge a restare vivi in un
senso particolare, vedendo attentamente, percependo con attenzione, toccando
noi stessi e i nostri mondi con modalità che fino allora abbiamo evitato. Si è
detto, e io lo penso veramente, che la sofferenza è la prima delle grazie. In un
certo senso, la sofferenza è un momento di nuova gioia, perché rappresenta la
nascita dell’intuizione creativa.
Tuttavia, lo è soltanto in
un certo senso. Alcune persone si attaccano alle proprie sofferenze come una
madre al proprio figlio, e le trasportano come un peso che non osano mettere
giù. Queste persone non affrontano la sofferenza con consapevolezza, si
avvinghiano alla sofferenza, segretamente trafitti dagli accessi di martirio.
La sofferenza non dovrebbe mai essere una consapevolezza negata, evitata,
disprezzata, né glorificata, abbracciata, drammatizzata. Il sorgere della
sofferenza è bene in quanto buon segno, una indicazione che qualcuno sta
iniziando a capire che la vita vissuta senza coscienza dell’unità, in ultima
analisi, è dolorosa, tormentata, e penosa. La vita di confini è una vita di
battaglie, di timore, di ansia, di dolore, e infine di morte. Soltanto con
tutte le sminuenti compensazioni, distrazioni e incanti riusciamo a non mettere
in discussione i nostri confini illusori, la causa basilare della ruota senza
fine delle sofferenze. Prima o poi, se non diventiamo completamente
insensibili, le nostre compensazioni di difesa iniziano a mancare lo scopo di
lenire e celare. Di conseguenza, in un modo o nell’altro, iniziamo a soffrire,
poiché la nostra consapevolezza alla fine si dirige verso la natura piena di
conflitti dei nostri falsi confini e della vita frammentata che essi
sorreggono.
La mia consapevolezza è
quasi esclusivamente consapevolezza mentale: io sono la mia mente, ma posseggo
il mio corpo.
Il confine è una scissione,
una fessura o, per usare le parole di Lowen,
un blocco: “ Il blocco agisce anche per
separare e isolare il regno della psiche dal regno del soma. La nostra
consapevolezza ci dice che agiscono l’uno sull’altro, ma a causa del blocco,
essa non si estende tanto profondamente da farci intuire l’unità sottostante.
Infatti, il blocco crea una scissione nell’unità della personalità. Non
dissocia soltanto la psiche dal soma, ma separa anche i fenomeni di superficie
dalle loro radici nella profondità dell’organismo”.
La questione che ci
riguarda fondamentalmente è la scissione dell’organismo totale, il centauro, di
cui la perdita del corpo è soltanto il segno più visibile e tangibile. La
perdita del corpo non è esattamente sinonimo della scissione del centauro, “l’unità sottostante”, ma è soltanto una
delle manifestazioni che tale scissione può assumere.
Non intendo dire che il corpo
per sé – ciò che chiamiamo il “corpo
fisico” – è una realtà più profonda dell’ego mentale.
Infatti, lo stesso semplice
corpo è il modo di consapevolezza più basso, così semplice che questo testo non
lo comprende quale argomento a sé.
Il corpo non è “una realtà
più profonda” dell’ego, come pensano molti somatologi, piuttosto l’integrazione del corpo e dell’ego è una realtà più profonda di
ciascuna delle due separatamente.
Trovare un significato
egoico nella vita – significato fondamentale – vuol dire scoprire che i
processi propri della vita stessa generano gioia. Il senso si trova non in
azioni o possessi esterni, ma nelle intime correnti radiose del vostro stesso
essere, e nella liberazione e relazione di queste correnti con il
mondo, gli amici, l’umanità in generale, e l’infinito stesso.
Cap.
9 – Il Sé in trascendenza
Che cosa scoprì Jung, negli ambiti più profondi
dell’animo umano che indicava inequivocabilmente un campo transpersonale?
Jung fu sorpreso dal fatto
che le immagini mitologiche primitive apparivano anche regolarmente nei sogni e
nelle fantasie degli europei civilizzati e moderni, la grande maggioranza dei
quali non era mai stata a conoscenza di tali miti.
Queste informazioni non
erano state acquisite durante la vita e quindi, pensò Jung, in un modo o in un
altro, tali motivi mitologici di base dovevano essere delle strutture innate
ereditate da ogni membro della razza umana.
A mano a mano che
l’individuo inizia a riflettere sulla propria vita attraverso gli occhi degli
archetipi e delle immagini mitologiche comuni al genere umano, la sua
consapevolezza può iniziare ad avere una prospettiva più universale. Egli
guarda a se stesso non con i suoi occhi, che in un certo senso hanno dei
pregiudizi, ma con gli occhi dello spirito umano collettivo: una visione
completamente diversa! Non è più preoccupato solamente dei suoi vantaggi
personali.
Egli scopre all’inizio con
esitazione, poi con crescente certezza, una tranquilla fonte di forza interiore
che resiste imperturbata, come gli abissi dell’oceano, anche se le onde
superficiali della consapevolezza sono spazzate da torrenti di dolore, ansia, o
disperazione.
Invece di lottare contro
una difficoltà, supponiamo semplicemente che esista l’innocenza di una
distaccata imparzialità nei suoi confronti.
Chuang
Tse dice: “L’uomo perfetto usa la mente come uno
specchio. Non trattiene niente; non rifiuta niente, riceve, ma non perde”.
Ma quell’intimo Io … in
realtà, cos’è? Non è nato con il vostro corpo, e né morirà subito dopo la
morte. Non conosce tempo, né provvede ai suoi problemi. Non ha colore, né
forma, né sagoma, né dimensioni, e tuttavia osserva tutta la maestà di fronte
ai vostri occhi. Vede il sole, le nuvole, le stelle e le lune, ma non può
essere visto. Ode gli uccelli, i grilli, le cascate che gorgogliano, ma non può
essere udito. Afferra le foglie morte, la crosta terrestre, il ramo
intrecciato, ma non può essere afferrato.
Cap.
10 – Lo stato supremo di coscienza
La coscienza dell’unità non
è uno stato parziale. È invece onnicomprensivo nel modo più radicale, come uno
specchio che comprende tutti gli oggetti che riflette. La coscienza dell’unità
non è uno stato diverso o separato dagli altri stati, bensì la condizione e la
vera natura di tutti gli stati.
Alcune onde, vicino alla
riva, sono forti e potenti, mentre altre, più lontane, sono più deboli e meno
potenti. Ma ogni onda è ugualmente diversa da tutte le altre, e se voi state
andando in surf potreste scegliere un’onda particolare, prenderla, cavalcarla e
usarla secondo le vostre capacità. Non potreste fare niente di tutto ciò se le
onde fossero tutte uguali. Ogni livello dello spettro è come un’onda
particolare, e dunque possiamo “prendere” ognuno di essi con la tecnica
appropriata e una certa dose di esperienza.
La coscienza dell’unità non
è un’esperienza particolare fra tante esperienze, neanche una grande esperienza
contrapposta a una piccola esperienza, e neppure un’onda invece di un’altra.
È piuttosto ogni onda di esperienza
presente così com’è.
La nostra vera ricerca, il
nostro desiderio, prevengono la scoperta.
Al buddismo Zen, appartiene
un detto molto interessante: honshomyoshu, che significa “l’illuminazione
originaria è una pratica stupenda”. La coscienza dell’unità non è uno stata
futuro che risulta da una qualche pratica, perché ciò imlpicherebbe che la
coscienza dell’unità abbia un inizio nel tempo, che non esista ora e che
esisterà domani. Ciò renderebbe la coscienza dell’unità uno stato strettamente
temporale, assolutamente inaccettabile, poiché la coscienza dell’unità è
eternamente presente.
Se capiamo lo honsho-myosho,
di conseguenza tutto ciò che facciamo è pratica, è un’espressione dell’illuminazione
originaria.
Ogni atto ha origine dall’eternità,
dal non-confine e, proprio così com’è, è un’espressione perfetta e senza
ostacoli del Tutto. Tutto ciò che facciamo diventa la nostra pratica, la nostra
preghiera, non solo lo zazen, il canto, i sacramenti, la meditazione dei mantra,
la recitazione dei sutra o le letture bibliche, ma tutto, dal lavare i piatti
al pagare le tasse. E non nel senso che laviamo i piatti e pensiamo all’illuminazione
originaria, ma perché lavare i piatti è già illuminazione originaria.
È certo che saltiamo sempre
di onda in onda e restiamo sempre all’onda dell’esperienza presente.
Se vi sono alcuni aspetti
della vita che non vi piacciono, vuol dire che c’è qualche aspetto della coscienza
dell’unità a cui state resistendo.
Il materiale a cui si
oppone resistenza diviene parte dell’ombra, e all’individuo non resta che un
sintomo al suo posto.
L’individuo non resiste
(fondamentalmente con la stessa resistenza) al sintomo. Lotta contro il sintomo
con ansia, fobia, o altro, esattamente come prima aveva lottato con l’ombra.
Tratta quindi le persone
come sintomi.
Ne è completamente
inconsapevole. E poiché non lo sa non può smettere.
Produce egli stesso i suoi
sintomi ma non lo ammette, e così finisce per difendere le sue sofferenze.
Finché non si accorgerà di
resistere all’ombra, non farà alcun progresso, poiché continuerà a resistere e
dunque a sabotare ogni sforzo di crescita.
Il terapeuta non cerca di
sbarazzarsi della resistenza, di evitarla o ignorarla. Aiuta invece l’individuo
a capire come e secondariamente perché sta resistendo alla sua ombra.
La ragione per cui egli non
“ottiene” la coscienza dell’unità è perché la vuole.
Nel preciso momento in cui
si accorge che tutto ciò che fa è una resistenza, un distruggere lo sguardo e
un allontanarsi, non può far altro che arrendersi. Non può comunque cercare di
farlo, o di non farlo! Abbiamo visto che ciò non funziona, poiché entrambi i
tentativi sono ulteriori allontanarsi. Piuttosto, si verifica da solo,
spontaneamente, quando egli vede che niente di ciò che può fare, o non fare,
funziona, perché l’unità c’è già sempre. Lo stesso vedere la resistenza è la
dissoluzione della resistenza, e il riconoscimento della precedente unità.
Non resistere più al
presente è vedere che non vi è altro che il presente. Quando il passato del
ricordo e il futuro dell’anticipazione sono visti entrambi come fatti presenti,
allora gli impedimenti al presente crollano. I confini intorno a questo momento
ricadono in questo momento e dunque non esiste altro che questo momento, e
nessuno altro luogo in cui muoversi. Disse un vecchio Maestro zen:
Il mio sé di tanto tempo fa,
In natura non-esistente;
Nessun luogo in cui andare da morto;
Assolutamente niente
Fonte: Oltre i confini - Ken Wilber