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giovedì 22 novembre 2012

La vita nel labiritno – E. J. Gold

PERDERSI IN UN DEDALO STUPEFACENTE
A nostra insaputa, noi viaggiamo in un labirinto, un dedalo macrodimensionale di viva forza elettrica, rivestito dal sottile strato dell’ordinarietà della vita di tutti i giorni. Ciò che più di tutto ci impedisce di riconoscere questo fatto è l’impellente bisogno di ricondurre tutto ad una dimensione familiare, di ridurre ogni cosa a livello del nostro cervello di primati; di rifiutare la viva, pulsante realtà della totalità di ogni possibile attenzione.

Il labirinto! Un dedalo macrodimensionale camuffato dal tessuto dei confini biologici. Nella vita ordinaria, qualunque cosa facciamo o raggiungiamo, dovunque andiamo o chiunque diventiamo, ci ritroviamo sempre prigionieri della rigida routine; ci auto-immergiamo in un auto-invocato, continuo bombardamento di tensioni, distrazioni e auto-indulgenza quotidiana, riuscendo con successo, in un modo o nell’altro, a rifiutare qualsiasi vero aiuto possa esserci offerto.

Non riusciamo mai veramente a divertirci o a stupirci. Questa conversione di tutto quanto esiste nei termini di un primate è un’autentica malattia, di natura clinica come qualunque condizione patologica comunemente accettata.
Il sé essenziale, con le sue qualità di attenzione e presenza, è capace di vedere le cose in modo differente; perciò esso ha la capacità di avvertire il passaggio, quando questo si verifica, ad una percezione diretta del labirinto.

Agiamo come se il mondo dei primati esistesse realmente, come se noi avessimo un’interfaccia diretta con esso, come se esistessero in esso certezze e qualità tangibili mentre, di fatto, niente di tutto questo esiste (nel senso in cui noi crediamo che esista), neppure remotamente. Ci siamo costruiti attorno le pareti di un vero e proprio Giardino della Familiarità e adesso vi siamo intrappolati senza alcuna speranza di fuga.

LA CONSAPEVOLEZZA DEL LABIRINTO
Quando il processo d’apprendimento superiore si risveglia, non mostriamo più confusione e disorientamento quando entriamo nelle macrodimensioni. Mediante speciali processi interni, che è possibile imparare, possiamo andare ben oltre lo spettro ordinario, ed entrare nelle macrodimensioni, che nella forma somigliano alla realtà consensuale, ma sono radicalmente diverse da essa sotto altri aspetti, percepibili solo con un lungo e difficile addestramento dell’attenzione essenziale, ovvero non meccanica.

Quando un ratto diventa consapevole del labirinto, i suoi occhi sembrano in qualche modo contemporaneamente più giovani e più vecchi; la sua postura ed il suo comportamento generale verso l’ambiente e verso se stesso mostrano segni radicali di mutamento. Appare meno frenetico, più disinvolto, più sicuro di sé e notevolmente meno autodistruttivo.
Contemporaneamente, si possono notare segni visibili di eccitazione; è irresistibilmente pervaso da un nuovo senso di libertà, proprio lo stesso senso di libertà che può sperimentare un essere umano quando raggiunge quella che chiamiamo “illuminazione”. Naturalmente, per quanto riguarda gli esseri umani, questo primo barlume di vera libertà (non da un labirinto sperimentale, ma dai confini autoindotti di natura puramente psico-emotiva) non dura molto a lungo e presto si riafferma la sua monotona e banale attività da primate.

Il Gioco del Labirinto è stato chiamato il Gioco Fondamentale, il Grande Gioco, Il Gioco delle Perle di Vetro; solo l’auto-motivazione, la capacità di scuotere noi stessi dal sonno, di prendere le mosse da un punto zero e di spingere noi stessi oltre la postura immobilizzata dell’inerzia, produrranno risultati in questo che è “il più pericoloso dei giochi”.

Se ti rivelo il significato,
la tua mente seguirà il significato;
ma poiché l’attenzione segue la mente,
non coglierai il significato.

LA MADRE DI TUTTI I PUZZLE
Il labirinto, come qualunque dedalo, ha le caratteristiche di un puzzle. Attenendoci alle regole della risoluzione di questi ultimi, se ne comprendiamo le leggi e ne interpretiamo correttamente i segnali, dovremmo essere capaci di viaggiare in modo consapevole e di ricordare anche i passaggi precedenti; dovremmo anche riuscire a conseguire una visione generale, che tenga conto di tutto ciò che abbiamo imparato in un dedalo.
Nel labirinto, un individuo è soggetto a vagare all’infinito attraverso le stesse cinque, sei, sette, otto o nove diverse camere, imbattendosi in una successione di macro-personaggi, reagendo con la stessa gamma generale di reazioni riflesse acquisite, che determina il risultato del gioco fin dall’inizio.

LE CHIAVI PER VIAGGIARE CON ELEGANZA
Le chiavi per viaggiare in modo elegante sono generalmente quei piccoli, persistenti, insignificanti dettagli che normalmente accantoniamo come poco importanti; tali chiavi sono la nostra guida per orientarci nel labirinto.

Sapere ricordare ciò che si è fatto tre o quattro giochi fa o, anche, tre o quattro vite fa, è un altro importante requisito per viaggiare con successo. Non c’è buona sorte che ci possa aiutare, se non ricordiamo quello che abbiamo fatto in precedenza. Se non ricordiamo, siamo condannati a ripetere per sempre i nostri errori; ma non si tratta del tipo di memoria per cui ci possiamo affidare alla mente, o a qualunque altra funzione che di diritto apparta nega alla macchina biologica, e con la quale questa esegua, in duetto sincopato, il suo “canto del cigno” a senso unico.
Per questo tipo di memoria, dobbiamo sviluppare qualcosa che sopravvive alla morte della macchina; qualcosa che è chiamato, nel nostro linguaggio tecnico, comprensione: un richiamo semi-intuitivo, un sesto che proviene dalla conoscenza non elaborata, che ci dice che qualcosa non va, anche se non sappiamo esattamente di cosa si tratti.

Dobbiamo in definitiva sviluppare una qualche visione generale coerente, concordando sul fatto che, come disse una volta Eraclito, “non possiamo mai entrare due volte nello stesso fiume, poiché l’acqua in cui siamo entrati la prima volta è scorsa via”. Questo significa che anche se un evento può essere duplicato, la seconda volta esso avviene in un campo leggermente differente. Eraclito aveva ragione, niente rimane identico a se stesso; e comparare la situazione presente con l’esperienza non sarà d’alcun aiuto, neppure se potessimo tenere conto di tutto quanto abbiamo mai imparato da sempre …
Ma se la conoscenza si trasforma in comprensione, quando ci succederà di sentir puzza di bruciato, saremo almeno capaci di distinguere il fatto che, questa volta, non si tratta di toast …

La capacità di disimparare rappresenta un importantissimo e potente prerequisito per imparare cose nuove. Riapprendere significa essenzialmente liberare i circuiti nervosi delle cariche elettriche preesistenti, e dalle relative connessioni sinaitiche preferenziali, così da poter incidere negli stessi circuiti neurali una nuova serie di tracce intenzionalmente programmate.

Senza competenza e attitudine, non si può andare molto lontano. Ma se abbiamo competenza e non tendiamo a reagire violentemente all’inaspettato; se impariamo ad affrontare i rischi, sapendo che il rischio più grosso è quello di star seduti ad aspettare, senza far niente; se ci può essere accordata implicita fiducia, senza la minima ombra di dubbio, che non tradiremo … allora possiamo essere accettati come compagni di viaggio, anche nelle condizioni più pericolose, radicali ed inaspettate.

Più andiamo in profondità,
più è difficile
decodificare
i tanti messaggi.

giovedì 18 ottobre 2012

La Macchina biologica umana - E.J. Gold

Il nostro potenziale per l’evoluzione interiore
La chiave per compiere qualcosa di oggettivo valore sta nel nostro potenziale evolutivo interiore; dei metodi speciali possono insegnarci come usare il nostro copro, la nostra mente e le nostre emozioni per trasformare il nostro sé essenziale. Pensiamo ad un acquario.
Alcuni sono troppo occupati con le faccende della vasca e hanno altro a cui pensare; alcuni non hanno l’intelligenza di capire quanto viene loro comunicato; altri non vogliono essere distratti dai loro passatempi; altri ancora non hanno voglia di essere importunati da qualcosa che si trova al di fuori della loro confortevole routine.
In fine un pesce, pesce è e pesce resterà. Il vero cambiamento che può avvenire in lui sta nella sua potenzialità di assumere un posto più significativo in un disegno più ampio.

La macchina biologica umana come apparto di trasformazione
Contrariamente a quanto comunemente si crede, la trasformazione interiore non produce conseguenze psicologiche e comportamentali che possono essere facilmente riconosciute dall’esterno. Le reali conseguenze sono di natura completamente diverse.
In un certo senso, siamo vittime di molte malattie frutto della civiltà; uno dei maggiori sintomi di ciò è l’arroganza intellettuale caratteristica della nostra attuale cultura.

Quello che noi, come esseri umani civilizzati, potremmo avere difficoltà a capire è che queste idee vengono afferrate pienamente solo quando riflettono un corrispondente cambiamento interiore; arriviamo comprendere solo ciò che esiste dentro di noi, e niente esiste dentro di noi a meno che non ce lo abbiamo messo, digerito e preso profondamente in considerazione con molto più del semplice apparato mentale.
Per capire pienamente un’idea dobbiamo averne fatto effettivamente uso, familiarizzandoci con tutte le sue sottili ramificazioni in connessione ad altre idee che si sono già formate in noi attraverso le precedenti esperienze.

Nel normale corso della vita, esclusi momentanei risvegli accidentali, la macchina è addormentata, e durante questo stato di sonno essa esercita la propria volontà sulla situazione; allo stesso tempo le sue funzioni trasformazioni superiori non sono attivate.
In uno stato di sonno, l’attenzione della macchina si fissa completamente sui propri pensieri soggettivi, sugli stati emozionali e sulle sensazioni, oppure su quelle distrazioni ed attrazioni esterne a se stessa, che casualmente prevalgono in quel momento attraverso lo spesso velo delle proprie fissazioni soggettive su se stessa; questo è il vero significato dell’antico mito di Narciso.

La maggior parte delle comunità di lavoro si fondano sull’idea che è il sé essenziale ad essere addormentato e a dover essere risvegliato. Non essendo consapevoli dell’identificazione del sé essenziale con il sonno della macchina, né delle potenziali risorse della macchina in funzione di apparato trasformazionale (ma solo quand’è in stato di veglia), esse non hanno speranza di giungere ad un’autentica trasformazione.

Nulla esiste senza necessità.

Quando la macchina è sveglia, la sua attenzione è volta all’interno verso il sé essenziale, quella parte di noi che non è la macchina. Quando l’attenzione delle macchina si fissa in tal modo sul sé essenziale, ciò produce dei precisi effetti trasformazioni.

Per il nostro lavoro iniziale, possiamo immaginare la macchina biologica umana come una fabbrica alchemica che, se viene risvegliata dal proprio sonno meccanico, produce la trasformazione e l’evoluzione del sé essenziale.
Il sé essenziale si può ubriacare del sonno della macchina; può identificarsi completamente con esso. Il sé essenziale può anche arrivare a pensare di essere addormentato; ma resta il fatto che il sé essenziale non è né sveglio né addormentato.

Pur non potendo vedere direttamente il sé essenziale, possiamo vedere gli effetti del cammino che ha preso, le sue conseguenze sulla macchina.

Oltre la crescita personale
Molti metodi psicologici ci offrono di ottenere una crescita personale attraverso il cambiamento dei modelli di comportamento della “macchina”. I veri metodi di trasformazione ci permettono di giungere ad un cambiamento oggettivo, attraverso la trasformazione del “sé essenziale”, trascurando completamente l’effetto che produciamo sugli altri.
La maggior parte dei metodi offre strumenti per cambiare la macchina; tali metodi servono a chi tiene all’accrescimento personale e all’effetto prodotto sugli altri. A noi, d’altro canto, interessa il cambiamento oggettivo e di conseguenza lavoriamo per venire cambiati dalla macchina.

La macchina è solo una specie di fabbrica che produce cambiamento. Non c’interessa che aspetto abbia la macchina o cosa ne pensino gli altri; non siamo interessati all’uso della macchina come strumento d’espressione della nostra personalità, che di fatto è solo un’altra parte della macchina.

Prima di poter usare alcun metodo volto al risveglio della macchina, dobbiamo ammettere senza più dubbi che è la macchina ad essere addormentata, non il sé essenziale e che solo una macchina risvegliata può produrre una trasformazione. Dobbiamo anche comprendere che nessuno può attivare la nostra macchina per noi: dobbiamo attivarla noi.

All’inizio il sé essenziale non è capace di esercitare la volontà di risvegliare la macchina in modo diretto; però può esercitare un tipo speciale di volontà, chiamata “volontà di attenzione”, la quale, se applicata abbastanza a lungo, ha l’effetto di risvegliare la macchina con il solo mezzo dell’inesorabile pressione di un’incessante attenzione esercitata su di essa.
Aver mancato di usare la macchina biologica umana per la nostra possibile evoluzione è un terribile spreco dell’opportunità che è propria della vita umana; è un autentico peccato.

Iniziare a lavorare
Lo scopo del lavoro iniziale è quello di portare la macchina nello stato di veglia e di renderla capace di funzionare come apparato “trasformazionale”. La trasformazione non è in se stessa uno scopo, ma una tappa intermedia verso un modo di vivere del tutto nuovo, che è ciò che cerchiamo di raggiungere.

La macchina, una volta portata a termine la trasformazione, essendosi purufucata da quelle cose che la rendono “dis-funzionale”, diventa uno strumento di lavoro.

È importante usare i pochi periodi di veglia che si presentano senza sciuparli a caccia di piaceri della carne, ma per favorire la nostra evoluzione

Dunque, per portare la macchina nello stato di veglia dobbiamo utilizzare quello che il sé essenziale possiede realmente, i suoi due autentici attributi, la presenza e la volontà di attenzione; a tal fine saremo costretti a sviluppare una strategia … e una strategia molto precisa. Dobbiamo infatti attivare in modo efficace le proprietà trasformazionali della macchina biologica umana, senza allo stesso tempo innescare inavvertitamente il meccanismo di difesa della macchina contro lo stato di veglia.

A livello biologico, la macchina biologica umana è una fabbrica chimica simile a tante, funzionante sulla base delle stesse leggi chimiche. È regolata da piccolissimi impulsi elettrici che scorrono attraverso il sistema mio-neurologico, cioè i muscoli ed i nervi.

Se ci proponiamo di svegliare la macchina e renderla attiva come apparato trasformazionale, dobbiamo sviluppare la facoltà superiore chiamata discernimento; dobbiamo riconoscere quei periodi in cui la macchina è sveglia e, ancor più importante, quando non lo è.

Se pensiamo che la macchina sia già sveglia, non lavoreremo per svegliarla; comportandoci come se fosse sveglia non otterremo dei risultati immaginari. Inoltre potremo facilmente nuocere a noi stessi e agli altri, se cercassimo di fare qualcosa nel sonno come se fossimo svegli.
Allo stesso tempo, se la macchina è sveglia non dobbiamo sprecare lo stato di veglia con attività che riguardano il sonno.

Scopi interiori
Se formuliamo in maniera più esatta i nostri scopi interiori rivolti alla trasformazione, alla fine svilupperemo un vero scopo di lavoro; non qualcosa di mentale e soggettivo, ma uno scopo pratico, immediato, realizzabile e che può effettivamente servirne uno più grande e più oggettivo.

Scopriamo che la maggior parte degli esseri umani sono piuttosto soddisfatti degli scopi, delle occupazioni e dei piaceri della loro vita così com’è; possiamo osservare che dalla vita non si aspettano altro all’infuori di ciò che è stato loro detto di aspettarsi. Sono abbastanza felici delle meschine soddisfazioni derivanti dalle occupazioni organiche e dalla prevedibilità della routine quotidiana.

I nostri originali scopi di lavoro cambieranno e può essere sorprendente vederli cambiare spesso. Possiamo cambiare i nostri scopi per due ragioni soltanto.

La prima ragione è che mentre inseguiamo uno scopo, la nostra saggezza cresce e riusciamo a formulare il nostro scopo in modo più chiaro ed appropriato. Iniziando ad imparare, il nostro scopo temporaneo cambierà di pari passo alla comprensione dello scopo principale del lavoro. Mentre il nostro scopo cambia, dobbiamo essere assolutamente certi che non lo stiamo abbandonando solo perché ci ha annoiati. Cambiamo lo scopo quando non serve più allo scopo principale.

La seconda ragione per cui possiamo cambiare uno scopo è che l’abbiamo effettivamente raggiunto. In una scuola abbiamo un grande proposito e poi una serie di scopi più piccoli che servono quel proposito più grande.

Lo studio della macchina
Sebbene distinti dalla macchina, ne siamo ipnotizzati, siamo immersi nel suo stato di sonno. Uno degli scopi dello studio della macchina è quello di raccogliere prove che ci possano aiutare a definire l’esatta natura di questo sonno.

Non è sufficiente studiare la macchina solo in modo ordinario, vale a dire quando siamo identificati con il suo sonno; equivarrebbe a dire che la macchina sta studiando se stessa. In qualche modo dobbiamo imparare a studiare la macchina in modo oggettivo, dall’esterno, proprio come un antropologo studierebbe un altro primate nel suo habitat naturale; e la macchina biologica umana è precisamente un primate, più o meno con le stesse direttive e gli stessi imperativi biologici comuni alla specie.

In tutti i casi, sappiamo o abbiamo intuito che esiste un altro stato, molto diverso da quello ordinario; sappiamo che esso è possibile per la macchina e che conduce ad un’esperienza multidimensionale della vita, molto diversa da quella a cui siamo abituati.

Sappiamo che se abbiamo avuto esperienza di questo stato (chiamiamolo stato di veglia), ciò è accaduto solo per breve tempo ed in modo parziale, e poi per qualche inesplicabile ragione siamo caduti in uno stato di relativa oscurità; un’oscura e cupa prigione sotterranea fatta di esistenza miserabile, solo un’ombra di ciò che avevamo visto possibile.

Con nostro competo stupore, ci accorgiamo che le altre persone considerano tale oscuro e cupo stato di sonno come piuttosto accettabile, per non dire anche confortevole e gradevole.

In uno stato noi veramente vediamo, udiamo, sentiamo, gustiamo, tocchiamo, conosciamo, ricordiamo; tutti i nostri sensi e le nostre funzioni mentali ed emozionali sono migliaia di volte più limpide ed amplificate.

Certe sensazioni allarmanti si presentano inevitabilmente, quando la macchina comincia a svegliarsi: formicolio, sensazione di caduta, vertigine, perdita di coscienza, collasso, espansione dentro una pelle troppo tesa, sensazione di andare in fiamme, distorsione del corpo, allagamento o accorciamento, agitazione, debolezza, confusione, freddo, sudori, irrequietezza.

Il nostro sistema, in condizioni ordinarie, è non catartico ed estremamente graduale; esso sviluppa in modo dolce la volontà del sé essenziale e risveglia la macchina lentamente, in modo da non farla squilibrare più del necessario.

Le miglioro prove del sonno della macchina non vengono raccolte da noi stessi, ma da altri che fanno le loro osservazioni riguardo alla nostra macchina mentre essa è addormentata. Chiamiamole “prove per sentito dire”.


Fonte: La Macchina biologica umana


http://www.macrolibrarsi.it/libri/__la_macchina_biologica_umana.php?pn=2028







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giovedì 20 settembre 2012

La sintesi dello YOGA - Sri Aurobindo

… non c’è verità o pratica rigorosamente formulata che non invecchi e perda gran parte delle sue virtù se non la si rinnova costantemente nelle fresche acque dello Spirito, che ravviva la morte e moribonde forme e conferisce loro nuova vita. Rinascere ripetutamente è la condizione dell’immortalità materiale. 

Il mondo di oggi è come un enorme vaso di Medèa ove tutto viene rifuso, smembrato, sperimentato, combinato e ricombinato, per servire di materia a nuove forme, risorgere in nuova giovinezza e nuovi modi d’esistenza.
Lo yogi tende a ritirarsi dall’esistenza comune e a perde presa sulla vita, a pagare le ricchezze dello spirito con l’impoverimento delle normali attività umane, la libertà interiore con una morte esteriore. Se conquista Dio, sembra perdere la vita, mentre se dirige i suoi sforzi verso l’esterno per conquistare la vita corre il pericolo di perdere Dio. Così è venuta formandosi in India un’acuta incompatibilità fra la vita del mondo e la perfezione spirituale; quantunque esista una tradizione e un ideale d’armonia che tenta di accordare l’attenzione interiore con le esigenze esteriori, gli esempi di ciò sono rari.
Tuttavia nessuna sintesi dello yoga può riuscire soddisfacente se, per raggiungere il suo intento, non fonde Dio e la Natura in una vita umana liberata e perfetta, o se, attraverso i suoi metodi, non permette o, anzi, non favorisce l’armonia delle nostre attività e delle nostre esperienze interiori ed esteriori in una divina e totale pienezza. Perché l’uomo è precisamente la sede e il simbolo di un’Esistenza superiore discesa nel mondo materiale, ed è proprio in questa Materia che l’inferiore può trasfigurarsi e assumere la natura superiore, e il superiore rivelarsi nelle forme inferiori.
Il corpo grossolano è composto dall’involucro di nutrimento, o involucro materiale, e sistema nervoso o veicolo vitale.

Se la vita del corpo (corpo grossolano) è la base ed il primo strumento che la Natura ha saldamente prodotto in noi nella sua evoluzione, la vita mentale (corpo sottile) è lo scopo successivo e lo strumento immediatamente seguente. È la sua più alta ed entusiasmante tendenza, e, salvo nei momenti di esaurimento e di ripiego nell’oscurità riparatrice, è la sua costante ricerca ogni volta che riesce a liberarsi dal travaglio delle realizzazioni vitali e fisiche. Una distinzione è di massima importanza per l’uomo. La vita mentale non è una, ma doppia, anzi tripla: c’è una mente materiale e nervosa, una mente puramente intellettuale che si libera dalle illusioni del corpo e dei sensi, ed una mente divina che vola al di sopra dell’intelletto e si libera a sua volta dalle imperfezioni della ragione, del discernimento e dell’immaginazione logica.
Gli antichi dicevano giustamente che l’uomo è essenzialmente pensatore, Manu, un essere mentale che dirige la vita e il corpo, non un animale che da loro è diretto. Accettare liberamente le condizioni del nostro essere fisico, non perché vi siamo costretti, ma per fini di superamento e sublimazione; questo è l’alto ideale umano.

Non v’è dubbio che la vita mentale non ha ancora terminato la sua evoluzione nella natura e non è ancora solidamente fondata neanche nell’animale umano. Ne è segno evidente il fatto che l’equilibrio bello e completo della vitalità, il corpo sano e robusto dotato di lunga vita, si trova comunemente solo nelle razze o nelle classi che rifiutano lo sforzo del pensiero, le sue perturbazioni, le sue tensioni o che pensano solamente con la mente materiale. L’uomo civilizzato non ha ancora stabilito né possiede un vero equilibrio fra la mente pienamente attiva ed il corpo.
La Mente non è il fine ultimo dell’evoluzione, né il suo ultimo scopo, ma uno strumento, come lo è il corpo.

L’essere supermentale (corpo causale) è composto da conoscenza e beatitudine. Questa beatitudine non è un piacere supremo del cuore e delle sensazioni, al cui fondo sta un’esperienza di dolore e di sofferenza, ma una felicità che esiste in sé, indipendente dagli oggetti e dalle esperienze particolari, una gioia spontanea che è la natura stessa e la sostanza, per così dire, d’una esistenza trascendente e infinita.
Questo corpo causale in opposizione agli altri due che sono degli strumenti è anche la sorgente e il potere realizzatore di tutto ciò che la precede nell’evoluzione attuale. Le nostre attività mentali sono infatti un derivato, una selezione della conoscenza divina, una deformazione di essa finché restano separate dalla verità da cui segretamente discendono. Ciò vale anche per le nostre sensazioni ed emozioni rispetto alla Beatitudine, per le nostre energie nervose, e le nostre azioni rispetto alla Volontà e alla Energia della Coscienza divina, e infine per il nostro essere fisico rispetto alla pura essenza della Beatitudine e della coscienza.
È così abbagliante la visione di questa esistenza suprema, anche se appena intravista, così potente la sua attrazione, che avendola scorta anche una sola volta, possiamo sentirci pronti ad abbandonare ogni cosa per seguirla. Ma se per una esagerazione inversa a quella che crede di vedere tutto nella Mente, e la vita mentale come l’ideale definitivo, si finisse per considerare la Mente come una deformazione senza valore ed un supremo ostacolo o l’origine di un universo illusorio, una negazione della verità, qualcosa che bisogni respingere e le cui operazioni e i cui risultati debbano essere annullati se si voglia arrivare alla liberazione finale, non otterremmo che la deviazione di una mezza verità, incapace di vedere oltre le limitazioni attuali della mente la sua destinazione divina.
La conoscenza ultima è quella che percepisce ed accetta Dio nell’universo e la di là dell’universo, e lo yogi integrale che abbia trovato il Trascendente, può ritornare all’universo e possederlo, conservando a volontà il potere di scendere o di risalire la grande scala dell’esistenza. Poiché se l’eterna Saggezza esiste veramente la facoltà mentale deve pure avere un qualche impiego ed un destino eminente. Quest’impiego dipenderà necessariamente dal posto che occuperà nell’ascesa e nel ritorno, e questo destino dovrà necessariamente essere una pienezza ed una trasfigurazione, non un’amputazione né un annullamento.

Ci si accorge allora che tre sono le grandi tappe della natura:
una vita corporea che è la base della nostra esistenza in questo mondo materiale
una vita mentale alla quale emergiamo ed attraverso la quale eleviamo la vita del corpo verso un fine superiore, ampliandola e completandola
un’esistenza divina, traguardo ultimo della vita corporea e mentale, che ritorna ad esse per liberarle e condurle verso più alte possibilità.

Tutte le nostre attività verranno condizionate da queste tre possibilità mutualmente interdipendenti: la vita del corpo, l’esistenza mentale e l’essere spirituale velato che, nell’involuzione, è la causa delle altre due, e, nell’evoluzione, il loro risultato. Perseverando e perfezionando la vita fisica, colmando la vita mentale, lo scopo della natura (che dovrebbe essere anche il nostro) è di svelare, in un corpo fisico e mentale perfetti, le attività trascendenti dello Spirito. Come la vita mentale non sopprime la vita corporea, ma opera per la sua elevazione ed il suo miglior impiego, altrettanto la vita spirituale non dovrebbe annullare, ma trasfigurare le nostre attività intellettuali, emotive, estetiche e vitali.
Perché l’uomo, culmine della natura terrestre e solo organismo sulla terra nel quale può compiersi pienamente l’evoluzione della natura, è la sede di una triplice nascita. Ha ricevuto una forma vivente con un corpo che è ricettacolo di una manifestazione. La sua attività è centrata in una mente evolutiva che tende a perfezionarsi, come la cosa ove dimore e gli strumenti di vita dei quali si serve, e che è capace, con una realizzazione progressiva di sé, di svegliarsi alla sua vera natura in quanto forma dello Spirito. Raggiunge il suo punto culminante quando diviene quello che veramente è sempre stato: lo spirito illuminato e beatifico destinato a irradiare la vita e la mente con i suoi splendori celati. Giacché questi sono i piani dell’Energia divina nell’umanità, il metodo e lo scopo della nostra esistenza dipenderanno interamente dall’interazione di questi tre elementi nel nostro essere. E giacché tali elementi si sono espressi separatamente nella natura, l’uomo ha davanti a sé la scelta fra generi di vita: l’esistenza materiale ordinaria, una vita d’attività mentale e di progresso, e la serena e immutabile beatitudine spirituale. Man mano che va progredendo, può combinare queste tre forme, risolvere le loro disarmonie in ritmi d’armonia e creare così, in sé stesso, la divinità integrale, l’Uomo perfetto.
Nella Natura ordinaria, ognuna di queste tre forme possiede un impulso caratteristico che la governa.
L’energia caratteristica della vita corporea non è tanto il progresso quanto la persistenza, non tanto l’allargamento dell’individuo quanto la sua ripetizione.
Certamente esiste un progresso fra l’uno e l’altro tipo della Natura fisica, dal vegetale all’animale, dall’animale all’uomo; perché anche nella materia inanimata la Mente è all’opera.
L’energia caratteristica della Mente nella sua purezza è il cambiamento, e più la mente si eleva e s’organizza, più questa legge prende l’apparenza di un allargamento e di un perfezionamento costanti, di una sempre migliore sistemazione di quanto ho conquistato e perciò di un passaggio continuo da una perfezione semplice e piccola ad una perfezione più grande e più complessa. Poiché la Mente, a differenza della vita del corpo, possiede un campo infinito; la sua espansione è elastica e le sue formazioni facilmente variabili. Cambiamento, ampliamento, perfezionamento sono dunque gli istinti propri della mente.
La legge caratteristica dello Spirito è la perfezione in sé e l’infinità immutabile. Esso possiede sempre per sua natura l’immortalità, oggetto della Vita, e la perfezione, scopo del piano mentale.

In ciascuna di queste forme, la Natura agisce individualmente e collettivamente nello stesso tempo; l’Eterno s’afferma egualmente nelle forme isolate e nell’esistenza del gruppo, sia questo la famiglia, la stirpe, la nazione, o addirittura il gruppo supremo: la nostra umanità collettiva.
La vera relazione dell’anima singola col Supremo, mentre questa si trova nell’universo, non è afferrare egoisticamente la propria esistenza né annullarsi nell’Indefinito, ma realizzare la propria unità col Divino e il mondo e riunirli nella sua individualità; la vera relazione dell’individuo e della collettività non consiste nel ricreare egoisticamente il proprio progresso materiale o mentale o la propria salvezza spirituale senza preoccuparsi dei propri simili, e nemmeno nel sacrificare o mutilare il proprio sviluppo sull’altare della comunità, ma nell’assommare in se stesso le migliori e più complete possibilità della comunità e prodigarle attorno a sé a mezzo del pensiero, dell’azione o di qualsiasi altro strumento affinché la specie intera possa avvicinarsi alle realizzazioni raggiunte dai suoi rappresentanti più elevati.

Lo Spirito è la vetta dell’esistenza universale; la Materia la sua base; la Mente il legame che li unisce. Lo Spirito è tutto ciò che è celato e che deve essere rivelato, la mente ed il corpo sono i mezzi con i quali tenta di rivelarsi.

Tre elementi sono necessari affinché lo yoga possa esistere; ci vogliono tre parti consenzienti allo sforzo: Dio, la Natura e l’anima umana, o il Trascendente, l’Universale e L’individuale.
Se l’individuo e la Natura sono abbandonati a se stessi, l’uno resta incatenato all’altra e rimane incapace di superare in misura apprezzabile il flusso trascinante della natura. È necessario qualcosa di Trascendente, libero dalla natura e più grande di essa, che abbia il potere di agire su di noi e su di essa, traendoci verso l’alto, e inducendo spontaneamente o meno l’individuo all’ascesa.

I quattro ausiliari
La perfezione che si ottiene con la pratica dello yoga può essere facilmente raggiunta con l’azione combinata di quattro grandi ausiliari.
  • Primo = shâstra, è la conoscenza della verità, dei principi, dei poteri e dei procedimenti che governano la realizzazione.
  • Secondo = utsâha, un lavoro paziente e perseverante rappresentato dall’intensità dello sforzo personale.
  • Terzo = guro, la suggestione diretta, l’esempio e l’influsso del maestro.
  • Quarto = kâla, l’opera del tempo, perché tutte le cose hanno il loro ciclo d’azione e divino periodo.
Lo shâstra supremo dello yoga integrale è l’eterno Veda segretamente custodito nel cuore di ogni essere vivente e pensante. Il loto della conoscenza e dell’eterna perfezione è una gemma chiusa e ravvolta in noi, si apre in modo rapido o gradatamente, un petalo dopo l’altro, mediante realizzazioni successive, appena l’intelligenza dell’uomo incomincia a volgersi verso l’Eterno, e il suo cuore, non più oppresso dall’attaccamento o confinato alle apparenze finite, s’accende d’amore per l’Infinito.
Conosciamo il Divino e diveniamo il Divino perché già lo siamo nella nostra più intima natura. Ogni insegnamento è una rivelazione, ogni divenire uno sbocciare. La scoperta di se stessi è il segreto, la conoscenza sempre più ampia di se stessi ne costituisce il metodo.

Il dono di sé nelle opere. La via della Gîtâ
L’uomo, essere mentale, si è rivestito di un corpo materiale al fine di sviluppare in modo notevole la coscienza e l’esperienza, che lo condurranno alla suprema e divina scoperta del Sé.
Tutto il resto è secondario e subordinato, o accidentale e superfluo; importa solamente ciò che sostiene e aiuta l’evoluzione della sua natura e la crescenza, o piuttosto lo sviluppo progressivo del sé e del suo spirito. 


Fonte: La sintesi dello Yoga 


http://www.macrolibrarsi.it/libri/__la-sintesi-dello-yoga-vol-1.php?pn=2028

sabato 25 agosto 2012

Stati alterati di coscienza

In ogni situazione in cui i processi che costituiscono la coscienza come la memoria, la percezione, l'attenzione, le emozioni, non lavorano più in modo ottimale, si entra in ciò che viene definito stato alterato dell'ordinario stato di coscienza. Pur essendo difficile effettuare una netta distinzione tra uno stato alterato e uno stato ordinario, quest'ultimo lo si può considerare come quello stato in cui un soggetto si trova mentre svolge le normali attività della vita quotidiana, è perfettamente consapevole delle azioni che sta compiendo e si rende conto di ciò che gli accade intorno. Lo stato alterato è quello in cui il soggetto non è consapevole dell'ambiente circostante oppure ha un controllo parziale o nullo dei suoi sensi a tal punto da percepire in modo distorto le sue sensazioni e tutto ciò che vede o gli accade.

Essendo una fisiologica condizione dell'organismo ogni individuo nel corso della sua vita può avere l'esperienza di uno stato alterato.

Diversi sono i meccanismi in grado di indurre tale esperienza. Rimanere immobili nella stessa posizione per diverso tempo fa si che tutti i recettori del corpo si abituino e il cervello non riceve più da essi le sensazioni tattili e di movimento, in questo modo non si ha più l'esatta coscienza del corpo; questo rappresenta un esempio di stato alterato. Bombardare gli occhi con intense luci psichedeliche o impedire a tutti gli organi di senso di ricevere ogni informazione proveniente dal mondo esterno, non dà la possibilità al cervello di elaborare precisi punti di riferimento e questo determina la perdita della coscienza del tempo e dello spazio: è un altro esempio di stato alterato. Un risultato simile si ottiene agitando il corpo ininterrottamente per lungo tempo, oppure sottoponendosi a intensi stimoli sonori, ingerendo alcuni tipi di droghe, subendo traumi cerebrali o provando un'emozione violenta. In definitiva si entra in uno stato alterato della coscienza quando si è esposti a quei meccanismi che possono alterare il normale funzionamento dell'attività di tutti i processi cognitivi e che determinano, quindi, una modificazione della consapevolezza di sé e del mondo circostante.
Sotto l'aspetto prettamente fisiologico la differenza degli stati di coscienza dipende dalla velocità con la quale il cervello elabora le informazioni. Se il cervello elabora velocemente una notevole quantità di messaggi in entrata, si determina uno stato di iperattività neurovegetativa con conseguenti sensazioni di agitazione ed esaltazione emotiva; mentre, se le informazioni in entrata sono minime e la velocità di elaborazione è ridotta, si otterrà uno stato di ipoattivazione neurovegetativa con sensazioni di rilassamento o di sedazione emotiva profonda. Questi stati viaggiano lungo un continuum e ogni soggetto può passare da uno stato all'altro in una ridottissima quantità di tempo.

Gli stati alterati di coscienza sono chiavi di accesso per avvicinarci alla trascendenza, per transire e passare al di là della normale realtà percepita, attraversando regni sconosciuti verso un fine sempre più lontano dalla "realtà" e dall'ordinario. Ma che cos'è "ordinario" e soprattutto, cos'è la "coscienza"?.A queste domande, l'uomo ha sempre cercato delle risposte e nemmeno gli studiosi più accaniti hanno saputo dare una spiegazione. Analizzando il problema ci accorgiamo che tutto questo ha a che fare con quello che noi chiamiamo "Anima"; la parte sottile della nostra esistenza che ci assicurerà, forse, l'eterna permanenza del nostro "Io" in qualche parte degli universi possibili. La coscienza e l'anima stanno dentro di noi, mescolate e intrise alla nostra "fisicità", bilocate tra il mondo fisico e quello sottile, al di qua e al di là della materia, dei mondi, tra i quali è possibile stabilire un contatto. Come? Passando oltre, attraversando, calandoci dentro, il più possibile, a noi stessi, per scoprire il paradosso della vita; l'universo non è fuori di noi ma dentro, ed è calandoci dentro che passeremo fuori, al di là di ogni cosa.

Ma ancora: come?

Apprendendo delle tecniche e sviluppando le normali capacità percettive.
Se il corpo ci "trattiene" ancorati a questa realtà e il limite è la coscienza dobbiamo sforzarci di evolvere la nostra consapevolezza per un trasferimento cosciente del nostro "Io" all'Anima. Dobbiamo indurre il corpo e la mente a uno stato "alterato" per accedere a un ordine diverso di percezione.

In questi momenti di coscienza dilatata, conseguenza di uno stato di ripiegamento in sé stesso, l'Uomo avverte un distacco dal mondo circostante, vivendo però un sentire cosmico, dove lo spirito si inebria di energie rigenerative ed attinge in modo cosciente al sapere universale.

Come afferma il Premio Nobel Manfreid Eigen, "La natura delle informazioni è immateriale"; la realtà materiale è frutto di una "matrice" nascosta agli occhi della ragione alla quale si manifesta in maniera grossolana e approssimata.

A questo punto bisogna chiarire, però, che gli stati alterati di coscienza non sono la trascendenza: sono solo il buco della serratura da cui si può spiare le "realtà alternative". Poiché si vive per vivere e non per morire, nell'attesa si cerca di trovare, di questa trascendenza che ci attende, delle manifestazioni, delle comunicazioni mentre ancora viviamo su questa terra.

Il nostro stato di coscienza ordinario è uno strumento, un meccanismo, una struttura che ci permette di muoverci nel nostro ambiente, di decodificare la realtà sociale esterna nonché le esperienze ed i valori che ne sono alla base. La nostra società, e gli individui che la compongono, sono oggi confrontati a profonde trasformazioni culturali e tecnologiche tali da rimettere in discussione i fondamenti politici, religiosi, morali ed emotivi che costituivano un tempo dei punti di riferimento indiscutibili. Questi mutamenti rendono più fluttuanti concetti quale "normale" "patologico", "scienza" e "spiritualità" creando tutta una serie di nuovi interrogativi. Lo stato alterato di coscienza è uno stato di coscienza "nuovo" vissuto dallo sperimentatore come un cambiamento, spesso radicale, del funzionamento abituale della coscienza. Le informazioni che dal mondo esterno vengono captate attraverso i sensi ed elaborate dal cervello (sistema nervoso centrale) in questo stato potrebbero essere elaborate in altro modo assumendo nuovi significati e valori. Gli stati alterati di coscienza non sono per forza indotti o creati artificialmente, fanno parte della nostra vita quotidiana ed ognuno di noi li ha già sperimentati. Essi sono: gli stati di sogno, gli stati transitori tra sonno e veglia, gli stati ipnotici. Altri possono essere le patologie psichiche, l'ebbrezza alcolica, l'estasi, la trance e la meditazione oppure gli stati derivati dall'assunzione di droghe allucinogene. Lo stato alterato di coscienza non può essere considerato come secondario alla "coscienza lucida" perché l'io cosciente decodifica gli stimoli utili alla sopravvivenza (in senso ampio) e risulta perciò mutilato e asservito alla realtà esterna.

La coscienza "alterata" non è altro che la coscienza allo stato primitivo, liberata cioè da condizionamenti sociali imposti; una coscienza anteriore, "originaria". Siccome questa coscienza arcaica sottostà al principio di realtà essa apparirà "alterata" ogni qualvolta si tenterà di riportarla in superficie; questo anche perché non è possibile una perdita completa della realtà. La psichiatria classica considera gli stati alterati di coscienza come patologici, anticamera del manicomio, fughe dalla realtà soggettivamente frustrante. Non bisogna dimenticare che molti artisti, intellettuali e anche scienziati hanno usato ed usano tuttora sostanze psicoattive e nessuno si azzarderebbe a mettere in dubbio la loro sanità mentale. Neppure la cultura "giovanile" degli anni sessanta e settanta, che faceva delle droghe leggere un esperienza centrale nella socializzazione, può essere intesa come fenomeno psichiatrico. Se ne potrebbero criticare atteggiamenti ed ideologie, ma anche riconoscere una spinta nell'elaborazione di nuovi valori sociali e politici che non erano certo espressione di una fuga di massa autodistruttiva e psicotica. In realtà, gli stati alterati di coscienza sono mezzi per incontrare noi stessi e gli altri a livelli percettivi che ci sono abitualmente sconosciuti.

Le esperienze mistiche sono solitamente concepite quanto coincidendo con stati alterati di coscienza. Come risultato, una considerazione di stati mistici dovrebbe iniziare una discussione sulla coscienza stessa. Eppure la natura della coscienza è una delle più fondamentali e difficili di tutte le questioni filosofiche.

Le risposte a quella domanda si estendono attraverso uno spettro enorme nelle culture e nei periodi. Ad un estremo, includono l'idea che la coscienza è un mero sotto-prodotto della materia; quella è la filosofia del materialismo. All'altro estremo c'è l'idea che la coscienza è il substrato fondamentale della realtà; questa è la filosofia dell'assoluto idealismo come proposto, ad esempio dal Buddhismo Yogachara. Per Nietszche, la coscienza era una sofferenza prodotta dalla malattia della vita, mentre per la religione vedantica dell'India, è essere e felicità.

Eppure, poco importa cos'è la coscienza, il desiderio di alterarla è chiaramente comune e diffuso. Se è il caso, solleva la domanda ovvia sulla natura di uno stato "ottimale" di coscienza.

Nell'Ovest viene comunemente assunto che il nostro stato di veglia usuale è ottimale. Eppure numerose tradizioni religiose e contemplative hanno pretese sulla coscienza che corre all'incontro delle assunzioni occidentali, tra le quali:
  1. I nostri stati abituali di coscienza sono severamente subottimali e deficienti.
  2. Esistono stati molteplici di coscienza - inclusi i veri "stati superiori".
  3. Questi stati si possono ottenere coll'allenamento.
  4. La comunicazione verbale a loro proposito può dimostrarsi necessariamente limitata.

L'insegnamento delle tradizioni mistiche c'informano che il nostro stato usuale di coscienza non solo è sub-ottimale, ma persino sognaticcio ed illusorio. Asseriscono che, che lo sapessimo o meno, senza allenamento mentale, siamo prigionieri dalle nostre proprie menti, intrappolati senza saperlo da un dialogo interiore continuo che crea una divorrantissima distorsione della percezione. Queste tradizioni suggeriscono che stiamo vivendo in un sogno collettivo anche conosciuto da noi come Maya, 'illusione', o ciò che il psicologo Charles Tart chiama 'trance consensuale'.

Ovviamente, se queste varie tradizioni considerano il nostro stato abituale come subottimale, dovranno considerare certuni altri stati quanto superiori. Numerose tradizioni convergono sull'idea che l'unione mistica descritta dai mistici e santi costituisce lo stato supremo di coscienza, e difatti è il massimo compimento dell'esistenza umana.

Sonno e morte, da millenni sono stati affiancati l'uno all'altra e legati da nessi eufemistici (addormentarsi-morire), mitologici (per i Greci Hypnos, il dio del sonno, era fratello gemello di Tanatos, dio della morte) o metaforici (la morte come un sonno eterno senza sogni). Il sonno, realtà esperibile, reversibile, si è prestato come base per pensare la morte, di per sé non esperibile e irreversibile. Ma anche lo stato di coscienza onirico, il sogno, è servito come mezzo cognitivo-esperienziale per poter pensare la morte (pensiamo, ad esempio, al monologo di Amleto). Negli ultimi tre decenni si è andato sempre più imponendo un ulteriore stato di coscienza che ha posto in secondo piano il sonno e il sogno come modelli e metafore della morte. Anzi, questo stato di coscienza, si è legato alla morte non più attraverso figure retoriche quali l'analogia o la metafora, non più attraverso forme eufemistiche o parentele mitologiche: lo stato di coscienza di cui parleremo, è stato descritto, e non solo da chi lo ha vissuto personalmente, come coincidente con la stessa morte, che in tal modo è stata illusoriamente piegata alla dimensione esperienziale. Questo abbattimento dello iato metaforico-linguistico, della tensione tra segno e simbolo, è da più parti ritenuto una delle conseguenze del processo di desimbolizzazione tipico della cultura post-moderna, un processo interessante.

Dunque la morte è stata ammantata dall'esperienza, e non è un caso che lo stato modificato di coscienza di cui parliamo è stato denominato: "Esperienza di Pre-Morte" (noi preferiamo però l'espressione inglese: Near-Death Experience, Nde). Grazie all'Nde la propria morte non solo diventa pensabile, ma anche "vivibile": si fa esperienza della morte. Chi "vive" una Nde può raccontarla come fa con i propri sogni, con le esperienze di un viaggio in paesi lontani o con l'esperienza di una notte in discoteca. Noi viviamo nella "società dell'esperienza", afferma in un recente saggio il teologo Hans Küng, e in tale società solo in un caso la morte può essere accettata e suscitare profondo interesse: "solo cioè se anch'essa è intesa come esperienza vissuta, cioè come esperienza di uomini che sono morti e che sono poi richiamati in vita dalla morte" (Küng e Jens, 1995, p.22). Di qui l'ampio "uso" strumentale dell'Nde all'interno dei nuovi "culti dell'esperienza" come la New Age, al fine di rassicurare la gente impaurita dall'obliterazione della coscienza dopo la morte.

Seppure con una incidenza non elevata, si è riscontrato che una certa percentuale di coloro che, in seguito a un grave incidente o un trauma o una crisi cardiaca, abbiano pensato, creduto, temuto o percepito, più o meno consciamente e non necessariamente in presenza di un oggettivo pericolo di morte, che la propria morte fosse imminente, riferiscono di essere stati protagonisti di un'esperienza descritta come fantastica e "reale" al tempo stesso, come un vero e proprio "viaggio nell'aldilà" o nel "mondo dei morti", descritto uniformemente come luogo di pace, serenità e tranquillità assoluti, che presenta molte somiglianze con quello immaginato da Dante nella "Divina Commedia" o con quelli immaginati e descritti nei "Libri dei Morti" sia egiziani che tibetani. Molti di coloro che sono stati o hanno ritenuto di esserlo, sul punto di morire o addirittura sono stati dichiarati clinicamente morti, hanno poi riferito di essere "usciti dal corpo" e di averlo potuto osservare dall'esterno; di essere entrati, spesso dopo l'attraversamento di una zona di passaggio generalmente buia, in luoghi paradisiaci, in un regno di luce e amore, dove avrebbero incontrato parenti o amici defunti e spesso anche un grandioso "Essere di luce"; alcuni hanno anche riferito di aver potuto rivedere in breve tempo l'intera esistenza passata e/o, in alcuni casi, anche quella futura e di avere improvvisamente intuito la vera natura e il vero significato della vita e della morte; riferiscono poi di essere arrivati in una zona di confine o di aver incontrato un ostacolo, o l'Essere di luce stesso, che ha impedito loro di andare oltre e che li ha costretti a "ritornare nel corpo".

La letteratura sull'Nde mostra numerose incongruenze; assumeremo un approccio psicofisiologico clinico per il raggiungimento di una più adeguata definizione, descrizione e comprensione dell'Nde. L'assunto psicofisiologico, della fondamentale unitarietà dell'essere umano in cui corpo e psiche non sono altro che due facce della stessa medaglia, si rivela, nello studio dell'Nde, più che in altre possibili esperienze umane, di particolare validità ed utilità. Esso ci consente, infatti, di giungere ad una considerazione dell'Nde che nulla ha a che fare con le possibili e, per alcuni, inevitabili ipotesi metafisiche e prove della "vita oltre la vita".

Molte definizioni dell'Nde sembrano dare per scontato che tale esperienza venga vissuta unicamente da persone che siano state in reale pericolo di morte, definito come tale sulla base di specifici parametri medici. Solo pochi autori hanno sottolineato che la semplice percezione della morte come imminente può essere di per sé una condizione sufficiente perché un individuo viva una Nde, anche in assenza di una grave crisi organica. Noyes (1972) ha considerato il riconoscimento della morte come imminente da parte del soggetto come il prerequisito indispensabile per il verificarsi di un'Nde. È, dunque, più probabile che essa accada, secondo Noyes, in tutte quelle circostanze in cui tale riconoscimento anche in maniera repentina, è possibile. Questa considerazione di Noyes ha trovato conferma nella ricerca eseguita dallo stesso autore insieme a Kletti (1976) dalla quale è risultato che i vissuti che caratterizzano tipicamente un'Nde si presentano con maggiore frequenza in coloro che avevano creduto di stare per morire rispetto a coloro che non lo avevano creduto.

Riassumendo, si può dunque schematizzare il tutto con la sequenza:
  1. trauma psicofisiologico;
  2. vissuto di pericolo di vita;
  3. innesco, in alcuni individui per motivi non ancora spiegati, di una Nde.

Un'altra critica si può muovere a coloro (ricercatori e soggetti) che considerano l'Nde come un'esperienza "nella" morte piuttosto che "vicino" ad essa (nonostante l'inequivocabile termine "near" presente nell'espressione inglese) o in sua prossimità, in senso probabilistico. Ricordiamo che la morte è la "cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo", in particolare delle funzioni psichiche cerebrali e dell'attività dei centri nervosi del tronco encefalico. Quando si parla di "morte clinica" o di "Eeg piatto", ci si riferisce solo a segni clinici necessari, ma non sufficienti a stabilire la morte dell'individuo. È stato dimostrato con esperimenti su animali, che in presenza di Eeg isoelettrico, rimane comunque una minima attività elettrica cerebrale rilevabile attraverso elettrodi infissi direttamente nella corteccia e in altre parti dell'encefalo. Scrive a tale proposito David Lamb, studioso inglese di bioetica: "I mezzi di comunicazione di massa riferiscono di frequente casi di pazienti "riportati alla vita"; ma questi racconti non possono essere comunque presi in considerazione [...] come esempi di reversibilità della morte. [...] Questi resoconti hanno nondimeno acquistato un significato religioso, grazie ai servizi sensazionali che compaiono nei mezzi di comunicazione di massa sulle esperienze nell'"oltretomba".

In definitiva, chi ha vissuto un'Nde non è mai stato "un morto", ma di sicuro ha occupato il "ruolo" del morto, ascrittogli da sanitari frettolosi o da sé (sia durante che dopo l'esperienza).

L'Nde senza dubbio affascina, appaga il desiderio umano di una "vita oltre la vita" (guarda caso è proprio questo il titolo del best seller di R. Moody), e anche molti studiosi dell'Nde, soprattutto coloro che hanno personalmente raccolto molti resoconti di tale esperienza, si sono lasciati influenzare ed affascinare dalla sincerità e dall'intensità emotiva dei racconti dei soggetti intervistati e, per quanto abbiano precisato che tali soggetti non fossero morti, e che fosse sensato prendere le opportune distanze da ipotesi di carattere metafisico e trascendente, hanno finito, in alcuni casi, per indulgere nell'uso di una terminologia estremamente suggestiva di quest'ultimo tipo di ipotesi, quando non addirittura convincersi che l'Nde sia effettivamente un "viaggio" nell'aldilà.

Tra le molte ipotesi fino ad ora formulate per spiegare l'Nde (per una trattazione delle quali rinviamo alla vasta letteratura scientifica e divulgativa), consideriamo del sogno particolarmente vivido e lucido.

Il sogno è uno degli stati modificati di coscienza più comuni. Per questo, molti, sia tra coloro che hanno studiato l'Nde, sia tra coloro che l'hanno vissuta in prima persona, hanno ritenuto di poter paragonare tale esperienza al sogno. Ma numerose sembrano essere le differenze che impediscono una equivalenza tra Nde e sogno.

R. Moody (1975) evidenzia che coloro che hanno vissuto una Nde, sono individui perfettamente in grado di distinguere tra sogno ed esperienze reali; inoltre essi parlano dell'Nde come di eventi realmente accaduti; non di una esperienza sognata, seppur in modo particolarmente lucido e vivido, ma di una vera e propria esperienza, seppure straordinaria.

M.B. Sabom (1982) ha fatto notare che l'estrema mutevolezza e variabilità dei contenuti dei sogni, non solo tra persone diverse, ma anche nella stessa persona, contrasta con la straordinaria ricorrenza di alcuni elementi nell'Nde. Sabom, in accordo con quanto sostenuto da Moody, cita alcune testimonianze di persone che hanno vissuto l'Nde e che escludono che si sia trattato di un sogno:

"Pensavo: accidenti! Che sogno pazzesco! Ma non era affatto un sogno. Era qualcosa di reale e concreto che accadeva davvero".

"Si trattava di realtà, e non di allucinazione o fantasia. Lo percepivo nettamente. Non era un sogno. Quelle cose mi stavano accadendo per davvero. Le vivevo, le sperimentavo, sebbene fossi più morto che vivo".

"Ho sempre sognato con regolarità e con grande varietà di temi, ma l'esperienza vissuta non si può, sotto alcun punto di vista, etichettare come un fatto onirico, assolutamente. Era reale al massimo, concreta. E poi il senso di pace, la favolosa tranquillità. Era questo, forse più di ogni altra cosa, che la distingueva dal sogno".

Questo evidenziare - commenta Sabom - il profondo senso di realtà dell'esperienza di pre-morte in confronto all'illusorietà del sogno si ritrova in tutte le testimonianze di coloro che hanno vissuto ambedue le cose, ed è molto importante. Il fatto di essere in grado di percepire il senso di irrealtà legato al sogno è fondamentale per il sognatore, stando alle idee di Freud. Gli consente, infatti, di ottenere una specie di rassicurazione positiva "[...] che mira a ridurre drasticamente l'importanza e il pathos di ciò che si sogna consentendo al soggetto di tollerarlo comodamente" [l'interpretazione dei sogni, 1900]. [...] L'irrealtà percepita nel fatto onirico consente, in genere, di proseguire nel sonno ristoratore, nonostante le impressioni sgradevoli o potenzialmente distruttrici che si possono ricevere sognando. Gli eventi che invece accadono nelle esperienze di pre-morte sono sentiti come concreti e reali in modo profondo, sia durante il loro svolgersi sia dopo, allorché li si riconsidera. Senza scordare che, mentre i sogni sono estremamente mutevoli e variabili, non solo da persona a persona, ma anche rispetto a un medesimo soggetto, le esperienze di cui discutiamo si attengono tutte a parametri di estrinsecazioni nient'affatto mutevoli, bensì ricorrenti. Per questo anche l'"enigma sogno" non può spiegare il misterioso fenomeno che stiamo studiando".

Anche le Nde raccontateci da alcune delle persone intervistate, concordano sostanzialmente con quanto si è appena detto. Giuliana, di 43 anni, così descrive la sua esperienza, escludendo che si sia trattato di un sogno:

"[...] Ero in macchina, [...] sono stata spinta fuori strada e ho preso un albero; [...] a quel punto, dopo l'impatto, sono svenuta, sono stata estratta dalla macchina e sono stata messa per terra. Per terra, a quel punto, sono uscita dal corpo... però rimanendo vigile; mi sono fatta una diagnosi, ho visto che era rotto il femore, era rotta la bocca e ho detto: "è più grave la bocca, ma guarisce prima e non dà problemi; il femore, che è meno grave, mi darà problemi; comunque, il tutto si risolverà in un mese al massimo, nessun organo vitale è stato toccato". [...] Sapevo che quello che avevo vissuto era vero, più vero di quello che stavo vivendo dopo. Quindi non era un sogno, non era una costruzione mentale, non era dovuto a droghe, non era dovuto assolutamente a nulla e non mi ero sbagliata. [...] Io distinguo perfettamente quella che è un'immagine mentale da quella che è un'immagine emotiva e da quella che è stata quella esperienza lì che non è né mentale né emotiva; è, inoltre, assolutamente diversa dal sogno".

Anche Giorgio, rimasto in coma 19 giorni, raccontando la sua Nde indotta da un incidente d'auto, l'ha descritta come un viaggio in "Paradiso". Nel suo racconto usa il termine "sogno" solo perché non ha altre parole per comunicare ad altri la sua esperienza: "Posso dire che è come se fosse stato un sogno ma in realtà è come se fosse stato vero".

Oltre al senso di realtà, di chiarezza e lucidità più vicino allo stato di veglia che di sogno, un'altra variabile che esclude sovrapposizioni tra stato onirico e l'Nde è che questa esperienza la si ricorda per tutta la vita, resiste all'oblio, ciò che invece non accade nel caso dei sogni.

Le ipotesi esplicative, sia quella del sogno, che tutte le altre (allucinazione, esperienza mistica, stress neurologico da ipossia, visioni archetipiche, estasi indotta da overdose di endorfine, ecc.), risultano deboli e non esaustive, perché sono viziate da un preconcetto tacito o esplicito: l'Nde viene considerata come un'esperienza unitaria, coerente e nel migliore dei casi come uno stato alterato di coscienza. Invece è plausibile che si debba modificare questa visione da montaggio "cinematografico" che si ha dell'Nde. Anzi, il montaggio eseguito dal soggetto narrante, viene complicato dall'opera di "ri-montaggio" da parte dello studioso che cerca generalizzazioni e visioni unitarie. Se invece iniziassimo a considerare l'Nde non come "uno" ma come la sequenza (possibile, ma non necessaria, o comunque senza rigida stadiazione) di "stati" modificati e discreti di coscienza, avremmo la possibilità di circoscrivere e comprendere il fenomeno dell'Nde entro una cornice ben precisa che vada a contrapporsi alle vaghe e, spesso contraddittorie definizioni formulate dai vari autori. Per lo studio dell'Nde potremo allora avvantaggiarci dei modelli, delle procedure di ricerca e delle conoscenze già acquisite nella ricerca generale sugli stati modificati di coscienza. Potremo allora effettuare analisi fenomenologiche, formulare ipotesi limitate e focalizzate su ogni singolo e discreto stato di coscienza indotto dalla prossimità (oggettiva o soggettiva) della morte. Fino ad ora, infatti, tutte le ipotesi, da quelle meccanicistiche a quelle psicodinamiche, da quelle transpersonali a quelle metafisiche, si sono dimostrate deboli proprio perché spiegavano "parti" di una esperienza ritenuta "unitaria", gestalticamente coesa, discreta, come il sogno, l'orgasmo, l'estasi, ecc. Raggruppando la fenomenologia e i vissuti dell'Nde in modo da distinguere ognuno dei clusters risultanti come distinti e discreti stati di coscienza, sarà possibile rivisitare le ipotesi eziologiche e rendersi conto che non sono poi tutte da espungere. Non è detto, inoltre, che una ipotesi meccanicistica valga più di una psicodinamica o transpersonale, è solo questione di livelli di analisi (Venturini, 1995), un sogno può essere al tempo stesso il prodotto della stimolazione di particolari neurotrasmettitori, la soddisfazione allucinata di un desiderio o un messaggio dalle "bande" transpersonali.

Dunque, pur considerando, in accordo con William James, lo stato di coscienza come un flusso continuo, suggeriamo di raccogliere tutti i possibili vissuti di una Nde in tre fondamentali stati modificati di coscienza:

Stato dissociativo: fenomenologicamente caratterizzato da uno stato di dissociazione emotiva fino all'autoscopia.

Stato implosivo: fenomenologicamente caratterizzato da regressione, memoria panoramica e comprensione "cosmica" o illuminazione.

Stato relazionale: fenomenologicamente caratterizzato dalla percezione di luce intensa, sentimenti di amore e incontri con "esseri di luce" o con parenti e amici defunti.

A tali stati va aggiunto quello che chiameremo "passaggio" e che, in realtà, può essere considerato non tanto come uno stato di coscienza discreto, quanto un momento di transizione tra i tre (di solito tra il primo e il secondo). Il passaggio è fenomenologicamente caratterizzato dalla sensazione di attraversare un tunnel buio a grande velocità o dalla sensazione transitoria di oblio totale oppure di varcare un cancello, un muretto di confine, una soglia, ecc.

Per ognuno dei tre stati, si possono discriminare e analizzare i vissuti che le persone hanno raccontato più di frequente, adottando come griglia di lettura il modello di Charles Tart sugli stati alterati di coscienza. In accordo con la "teoria dei sistemi" da lui adottata, Tart (1975) ritiene che ciascuno stato di coscienza (discreto) non vada considerato come costituito da un insieme di funzioni psicologiche isolate, ma come un sistema, cioè "una configurazione interagente, dinamica di componenti psicologiche che eseguono varie funzioni in ambienti che cambiano notevolmente" .

Dunque, il tipo di ambiente (fisico e culturale) in cui il soggetto è immerso, insieme alla configurazione assunta dalle parti che compongono il sistema-coscienza (sottosistemi), determinano la differenza di caratteristiche assunte dai diversi stati di coscienza.

Tart elenca dieci sottosistemi fondamentali; essi garantirebbero il processo di elaborazione delle informazioni in arrivo dall'esterno e dal corpo e l'organizzazione delle risposte motorie e comportamentali ad esse. Infatti il funzionamento di tali sottosistemi nell'ambito di una determinata gamma di valori, che Tart definisce "previsti e appresi", favorito da tutta una serie di processi di stabilizzazione, consentirebbe al soggetto di rimanere e di funzionare in uno stato di coscienza ordinario.

I dieci sottosistemi sono i seguenti:
  1. esterocezione;
  2. enterocezione;
  3. elaborazione dell'input;
  4. memoria;
  5. subconscio;
  6. valutazione e decisione;
  7. emozioni;
  8. senso dello spazio e del tempo;
  9. identità;
  10. output motore;

Una griglia di lettura alternativa potrebbe essere quella delle "caratteristiche fondamentali" degli stati modificati di coscienza, identificate da Arnold Ludwig (1966) sulla base dei suoi studi di numerosi e vari stati di coscienza. Per buona parte, queste caratteristiche rispecchiano alcuni sottosistemi di Tart:
  1. alterazioni del pensiero;
  2. disturbi nel senso del tempo;
  3. perdita del controllo;
  4. cambiamenti nell'espressione emotiva;
  5. cambiamenti dell'immagine corporea;
  6. distorsioni percettive;
  7. cambiamenti nel significato o senso;
  8. senso dell'ineffabile;
  9. sentimenti di rinnovamento;
  10. ipersuggestionabilità.

Non è nostro intento elencare qui uno per uno tutti i vissuti, le sensazioni, le percezioni dei tre stati dell'esperienza di pre-morte, leggendoli attraverso la lente della teoria degli stati modificati di coscienza di Tart o di Ludwig. Viceversa, se volessimo considerare l'Nde come un unico stato di coscienza, la lettura attraverso le griglie sarebbe affatto chiarificatrice; ci troveremmo, ad esempio, nell'ambito di un medesimo racconto di un'Nde, a dover collocare in una singola categoria della griglia, anche tre vissuti differenti. In tal modo la griglia non ci aiuterebbe a discriminare e quindi non potremmo confermare la discretezza dello stato di coscienza. Ad esempio, considerando la categoria: "cambiamenti dell'immagine corporea", notiamo che in una stessa Nde si può passare da un vissuto di dissociazione dal corpo fisico (autoscopia), alla sensazione di essere tornato fisicamente bambino, al vissuto di un corpo di luce o globulare. È evidente la difficoltà a considerare come appartenenti ad un unico stato di coscienza vissuti corporei tanto dissimili; mentre risulta tutto più chiaro se considerassimo i tre vissuti come appartenenti a tre diversi stati di coscienza, che, sebbene raramente, possono configurarsi in sequenza. Al momento del racconto dell'esperienza vissuta, per un processo simile a quello della revisione secondaria dei sogni, i vari vissuti dei tre stati (più quello del "passaggio") verrebbero percepiti come appartenenti ad un'unica sequenza, come episodi di un unico film, e quindi modellati e interpretati simbolicamente a seconda della cultura di chi ha ritenuto di aver "vissuto la propria morte".


Fonte: http://www.istanze.unibo.it/oscar/sentiero/cono03.htm