Translate

Visualizzazione post con etichetta Psicologia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Psicologia. Mostra tutti i post

domenica 16 dicembre 2012

Karma e Caos - Paul R. Fleischman

Una pratica di autocontrollo
“Sedersi” è, infatti, tra le altre cose, una pratica di autocontrollo.
Mentre si medita non ci si alza né ci si muove, non si fanno soldi né si passano esami, e neppure si può essere rassicurati da una certa telefonata. Si potrebbe obiettare che anche il servizio militare, una lezione di violino o la formazione medica permettono di esercitare l’autocontrollo. Ma l’azione di “sedersi” fa esercitare l’autocontrollo nei confronti di valori specifici. Qui l’azione è completamente sostituita dall’osservazione. Certo, non varrebbe la pena di dedicare la propria vita a questa pratica, se poi si passasse il tempo in sogni erotici o nella preoccupazione di avere successo e riconoscimenti. Purtroppo, sogni e preoccupazioni si presenteranno comunque, fanno parte della nostra umanità. Le varie culture non avrebbero prodotto gli onnipresenti codici morali, i dieci comandamenti, se non traboccassimo di centomila impulsi incontrollati.
Ma le esortazioni morali e le prediche mi sono sempre apparse rimedi insufficienti, tutt’al più mi danno la misura dei miei istinti più striscianti e incontrollabili. Mi servono lenti indistruttibili, o sempre rinnovabili, attraverso le quali poter scorgere l’amore al di là delle mie voglie e la fede al di là delle mie inquietudini. Come distinguere ciò che in me, è convinzione radicata, ciò che forma il nucleo della mia identità, da semplici velleità destinate a cadere? Quali sono i personaggi che continuano a passare davanti allo specchio della mia anima giorno dopo giorno, anno dopo anno e quali invece i buffoni che occupano il palco per la durata di una scena?

Dal Fedone di Platone, con le parole di Socrate: “dolore e piacere non vogliono mai stare insieme ambedue nell’uomo; ma, se qualcuno insegue o prende uno dei due, è pressoché costretto a prendere sempre anche l’altro, quasi che essi, pur essendo due, pendessero da un unico capo”.

L’amore una “rotta migratoria”
Per quel che mi è dato di capire, l’amore non è un’emozione, ma è l’organizzarsi delle emozioni. Non è una stanza, ma il luogo in cui ci si sente a casa; non è un uccello, ma una rotta migratoria. È un complesso di sentimenti, che va al di là dei sentimenti. È il contrario del colpo di fulmine e della sessualità romantica. “Sedermi” mi ha aiutato a trovare l’amore, a vivere d’amore, o quantomeno a viverne di più. Ha ravvivato, entro i limiti delle mie possibilità e del mio carattere, il marito, il padre, lo psichiatra, il cittadini che c’è in me. La meditazione mi ha permesso di scrutare impietosamente e di superare certi miei atteggiamenti sentimentali e i miei giudizi morali. Mi ha fornito uno strumento, un’attività, una pratica con cui esprimere l’amore. Essa mi fa da leva, e nel medesimo tempo mi stabilizza.

Come afferma Erik Erikson: “È soltanto l’ambivalenza che rende l’amore significativo, o addirittura possibile”.

In altre parole, è soltanto perché siamo sia separati sia uniti, che esiste l’amore. Senza un’esistenza individuale e degli impulsi personali, il mondo sarebbe soltanto un globo omogeneo, spoglio di emozioni, inconsapevole.
Tuttavia, se fossimo irrimediabilmente separati, saremmo come fredde stelle autonome poste l’una accanto all’altra nello spazio morto.

Far coesistere gli opposti
Per me, l’amore significa l’organizzazione delle emozioni umani in quello stato complesso in cui separazione e fusione, individualità e coinvolgimento, io e mancanza di un io,l paradossalmente coesistono. Solo un individuo può amare, ma per farlo deve cessare d’esser tale.

“Sedermi” mi ha aiutato a svilupparmi in entrambe le direzioni. Quando mi rinchiudo, mi costringe a spalancarmi, e quando mi stacco, come una scheggia che salta via, mi ricongiunge al corpo a cui appartengo.
“Sedermi” potenzia lo sforzo che faccio nei miei confronti, mette in moto la mia volontà e il mio impegno. Nello stesso tempo demolisce le tattiche che adotto per proteggermi per difendermi, sconvolgendo il concetto che ho di me stesso. Costruisce e nello stesso tempo smonta questo “me”, pezzo per pezzo.
In me dilagano tutte le speranze, tutte le aspirazioni, tutte le paure.

Stringere la mano alla morte
Meditare significa morire a ciò che accade intorno a me, abbandonare la distrazione, far cessare ogni desiderio di gratificazione. È la vita di questo momento, così com’è. Questa rigorosa messa fuoco mi riuscirà molto, molto utile un giorno. Ma lo è fin d’ora.

Nel cuore della storia
La vita ha inizio in una selva di condizionamenti: le nostre reazioni istintive a questi condizionamenti creano altrettante limitazioni. Per liberarci, occorre che diventiamo consapevoli del processi di condizionamento, e impariamo a dargli una risposta adeguata. La meditazione mi rende cosciente d’ogni scelta, perciò quando passo all’azione, mi ritrovo più attento, più concentrato, più cosciente e comprensivo.

La meditazione Vipassana
Vipassana è il nome della meditazione che punta alla diretta purificazione mentale e conduce alla pace profonda. Il termine “vipassana”, che in un’antica lingua dell’India, il pali, la lingua in cui c’è stato tramandato l’insegnamento del Buddha, significa “visione profonda”, indica la tecnica meditativa praticata e insegnata dal Buddha stesso. Vipassana non è buddismo, la religione che si cristallizzò intorno all’insegnamento del Buddha dopo la sua morte, ma è una psicologia del profondo, una trasmissione sistematica di verità oggettivamente verificabili.

Il nibbāna è imperturbabile pace interiore, purezza assoluta che si può soltanto definire per mezzo di quanto essa non è: non desiderio, non-paura, non-collera.
Le radici etimologiche del termine nibbāna sono indifferentemente interpretate come “nessuna freccia”, a significare che non si può raggiungere traguardo più alto nella vita, oppure come “nessun vento” per indicare che si è al di là d’agitazione e cambiamento.
Il nibbāna è contrassegnato dall’assenza di fattori contaminanti quali i desideri, le preoccupazioni, l’intolleranza. Esso nasce dall’estinzione della bramosia e dall’avversione, dalla serenità connessa alla visione impersonale; è pace senza fine, realizzata nell’attimo del presente.

Una concentrazione diversa
… la calma della concentrazione sul nudo respiro prescinde da qualsiasi situazione; non contiene “se” o “quando”, è priva di immagini. È come una pozza di luce, o un chiaro di luna; per la durata di un attimo, solo la lieve increspatura del respiro inonda la mente. Incredibilmente, la pace appare possibile. Frutto dell’osservazione, tuttavia non è osservabile, come l’aria fresca. Emerge da uno sforzo, da una partita giocata con se stessi, poi fluisce senza scosse, diventa senso di libertà incontenibile. Solo dopo che è nuovamente svanita, e si è riassorbiti dall’attività mentale, se ne sente la mancanza.

La meditazione vera e propria
Lo studente “inizi a osservare il continuo sorgere e svanire dei fenomeni all’interno del suo corpo … questa consapevolezza si svilupperà fino al punto in cui rimarrà solo la pura comprensione e la pura attenzione, ed egli si ritroverà perfettamente equanime, senza più alcun attaccamento per tutto ciò che esiste nel mondo della mente e della materia”. Con questa frase, il Buddha descrive la vipassana.

Partendo dalla concentrazione sul respiro e sul contatto del respiro con il corpo, lo studente si esercita a osservare, prima singolarmente e poi simultaneamente, le varie parti del suo corpo, fino ad acquistare la capacità di essere consapevole di tutte le sensazioni che si manifestano nel cranio, sulla fronte, negli occhi, nelle narici, nella bocca, nel petto, nel cuore, nei polmoni, nell’addome …
La meditazione diventa il fluire della consapevolezza attraverso l’intera struttura fisica, l’esplorazione attenta di un territorio rappresentato dal soggetto stesso. È come se la massa del corpo si frantumasse nelle infinite particelle che la compongono.

Ma perché concentrarsi sul corpo?
Noi ci identifichiamo in primo luogo con i nostri pensieri, i nostri sentimenti, la nostra psiche. Una tecnica che continuamente ci richiede di spostare la concentrazione dalla mente al corpo, può veramente andare in profondità, può essere qualcosa di diverso da una ginnastica tranquillizzante?  Questa meditazione sul respiro e sulle sensazioni del corpo, quale relazione ha con la purificazione mentale e la pace interiore?
Per penetrare nelle profondità della mente, dobbiamo imparare a osservarla là dove essa entra in contatto con il corpo. L’osservazione di noi stessi non può limitarsi alla sola mente, perché noi siamo continuamente sopraffatti dalla mente. La nostra obiettività, la nostra capacità di osservazione, cono viziate dal bisogno mentale di tradurre in immagini, di sceneggiare tutto. La mente, registra instancabile, non fa altro che sfornare film. E noi siamo quei film, o almeno così pensiamo. Noi crediamo in ciò che la mente proietta sul nostro schermo, ne siamo catturati, viviamo come se tutto ciò fosse vero.
Ma quel palcoscenico che ci vede sempre protagonisti, lo schermo che noi occupiamo quasi totalmente, si regge tutto su quel pacchettino di materia che è il nostro corpo.

Esistono diversi livelli di realtà. L’impegno che mettiamo nelle cose di questo mondo complesso, dove abilità, lavoro e pragmatismo ci procurano cibo, riparo, istruzione e affetto. Ma in ultima analisi, l’universo visibile e tangibile è un flusso mutevole di materia, che continuamente forma nuove aggregazioni. Il fatto definitivo è il cambiamento. La meditazione profonda, finalizzata a una pace duratura, deve necessariamente scavare più a fondo, oltre l’attività mentale funzionale, ma effimera, di una realtà transitoria, fino a toccare le verità esterne, che rappresentano il fondamento stabile di ogni personalità.

La vipassana è una base di osservazione sottomarina del mutamento. Con essa, l’osservazione neutrale e spassionata penetra fino alle radici del senso di noi stessi. Ogni pensiero, ogni fantasia, ogni immagine mentale è un prodotto del corpo che li contiene. Ogni guizzo della mente è contrassegnato da una reazione chimica. Potremmo dire che la mente è il succo che spremiamo dal cambiamento. I neurotrasmettitori, sostanze biochimiche complesse che fluiscono attraverso le sinapsi delle microforeste dendridiche del cervello, influenzano il nostro umore e le nostre attività mentali.
Gli psichiatri prescrivono queste sostanze biochimiche per curare la depressione, per calmare l’ansia o per liberare dall’orrore schizofrenico.
L’”io sono” che abita i nostri pensieri e le nostre emozioni è un prodotto delle possibilità della biologia, della chimica e della fisica del nostro corpo. Quando pensiamo, ne modifichiamo la struttura chimica. E schemi persistenti di pensiero modificano il nostro corpo, provocano l’ulcerazione del duodeno, spezzano il cuore o ci ridanno vitalità. Mente e corpo sono le due facce di un’unica medaglia.

La mente e le sue illusioni
Ma è la mente, considerata da sola, che genera l’illusione dell’”io sono”; essa nasconde la realtà del cambiamento inarrestabile che avviene in ogni atomo, ogni corpo, ogni galassia. La mente che non è in contatto con il proprio corpo sogna di essere libera da questo flusso inesorabile. Essa, sradicata dalla verità dell’incessante trasformazione, elabora le illusioni, che le impediscono di integrarsi armoniosamente con la realtà del mondo.
Come può una mente, soggetta a una continua auto-ipnosi, acquisire una visione più ampia e più stabile?
La mente umana può soltanto sperimentare la verità quando quella verità è direttamente percepita dalla struttura fisica dell’io. Per collocarci all’esterno di noi stessi e poterci vedere come siamo, per scrutare la nostra vita con “penetrante visione cosmica”, dobbiamo entrare in noi stessi e scoprire il moto vertiginoso delle galassie all’interno delle nostra ossa.

Per acquistare la purezza, oltrepassando l’illusione e la frammentazione della personalità, occorre sperimentare il continuo cambiamento di questo nostro io immaginario.
E la prima goccia di purezza filtra nella mente quando percepiamo il dissolversi del corpo nel flusso impersonale dell’universo materiale.

Il paradosso della vipassana
Quando il meditante impara a rimanere seduto in tranquillità, osservando semplicemente il sorgere e il passare delle sensazioni del proprio corpo, senza minimamente reagire, ritorna il flusso di pensieri che l’avevano assediato quando si concentrava sul respiro; a questi si aggiungono reazioni di oppressione e di sollievo fisico assenti in precedenza. A volte la vipassana gli apparirà un vero paradosso: spinto lì alla ricerca della pace, si troverà, almeno temporaneamente, più che mai nell’occhio del ciclone. A rari istanti di chiarezza stellare succede il solito frastuono mentale.

La pace di una mente purificata
Il principiante ora può accorgersi di come i pensieri scaturiscano dal suo corpo e, a loro volta, trasformino le sue sensazioni fisiche. È un inizio di libertà dalle coercizioni della vita animale: entrano in funzione nuovi organi mentali, nuovi muscoli spirituali. Diventa possibile osservare i mutamenti di corpo e mente, come si osservano le stagioni della terra e i periodi storici nella geografia del tempo.

Man mano che si dirada l’ignoranza che ci aveva così a lungo accecati, viene in luce la saggezza di una mente purificata. Perché continuare ad alimentare e legittimare tutto quell’odio e quella paura, visto che il copione è del tutto provvisorio? L’insistente ricerca di una felicità permanente entro i confini di questa vita ci appare qualcosa di infantile, un sognare ad occhi aperti. Niente più “vissero per sempre felici e contenti”, dunque, perché lì, nell’attaccamento alla fiaba della nostra infanzia, è la sorgente della nostra sofferenza.

Il sorgere spontaneo della compassione
Ci si rende conto che ogni essere vivente patisce la nostra stessa angoscia, e ci si sente chiamati ad aiutare gli altri a liberarsi almeno di quel tanto di cui siamo riusciti a liberarci noi.

Consapevolezza ed equanimità, strumenti di purezza
Una mente equilibrata, che non vuole nulla, è obiettiva, realistica, pulita. Sono le nostre aspettative auto-referenziali, le nostre proiezioni, la nostra agitazione a renderci confusi. Purezza vuol dire consapevolezza ed equanimità.
Il sentiero che conduce al nibbāna è semplicemente pace che porta a una pace sempre più profonda e che non si può scalfire.

Il meditante ha capito che la sofferenza è frutto del gioco ossessivo delle emozioni; adesso, per semplici istanti, ore, giorni, ha sperimentato la libertà.
In modo intermittente o per intere giornate si è sentito vivo e rigoglioso; consapevole, ma privo di reazioni verso il piacere e il dolore, continuamente pronto a mettersi in disparte per osservare spassionatamente, senza ombra di desiderio o avversione.

Tempo e cambiamento
Quella dell’immobilità fisica è una paura primordiale (tutti abbiamo sognato di essere paralizzati, incapaci di correre e di parlare), e la vipassana ci prepara ad affrontare questa paura. Il timore del dolore fisico è centrale nell’esperienza umana: la vipassana ci conduce in esso, e ci riporta fuori. Anche quella della solitudine è una paura profondamente radicata. Pur aiutandoci a sviluppare fiducia, senso d’appartenenza, fede, la pratica della vipassana è contrassegnata dalla più profonda solitudine nel silenzio; allora impariamo a usare quel gelo per calmare i bollori della nostra mente eccitata.
Una delle ragioni per cui la mente è sempre in fuga, preda della fantasia, di progetti e di ricordi, è che il concentrarsi sulla realtà fisica immediata inevitabilmente illuminerà la temuta verità: che il corpo va in rovina, ora, in questo momento, in ogni momento, irreversibilmente. Uno dei paradossi della tecnica vipassana è che la profonda concentrazione e il rilassamento fisico, la stupenda pace luminosa, conducono alla radice di quella paura … facendocela scoprire come una verità semplice e innocente, come il fatto che alla notte succede il giorno, alla fame la sazietà, alla stanchezza il sonno, al risposo notturno le stelle del mattino. Una mente, che osserva costantemente il corpo, conosce sia i limiti di quel corpo sia la vibrante energia universale che fluisce da forma a forma.

L’origine della sofferenza
La sofferenza deriva dall’ignoranza della nostra vera natura. La comprensione profonda della verità, l’esperienza della verità, ci libera dalla sofferenza. Allora diventa semplice prendere il sentiero giusto nella vita, quello che porta a trovare l’origine della sofferenza e il metodo per eliminarla, condizione “questa” indispensabile alla guarigione di sé e degli altri.
Con la vipassana possiamo renderci conto che siamo noi a creare la realtà in cui viviamo, e che il solo modo di uscire dalla sofferenza è dentro di noi. Ciò che l’individuo chiama “sé”, è una struttura psicofisica, un flusso impersonale di eventi magici, ognuno dei quali trae origine da quello precedente. Come ogni altro fenomeno naturale, siamo formati da una massa di particelle, un fascio d’energie regolato dalle leggi scientifiche che governano l’universo. Queste leggi non operano solo su elettroni, protoni e neutroni, ma anche su pensieri e sentimenti, giudizi e sensazioni. Al livello più profondo, mente e corpo si uniscono al punto in cui il continuo sorgere e svanire della materia all’interno del nostro corpo entra in contatto con la mente. Gli avvenimenti e i pensieri che si scontrano con i nostri sensi producono dei cambiamenti nelle nostre sensazioni fisiche. La valutazione di questo sostrato sensoriale somatico e la nostra reazione ad esso formano i complessi psicofisici con cui ci identifichiamo. L’ininterrotta reazione mentale al dolore e al piacere fisico condiziona la definizione inconscia di chi e di che cosa siamo.

La meditazione vipassana ci permette di sperimentare le vibrazioni profonde che sottostanno alla nostra mente inconscia. Essa reagisce con desiderio o avversione nei confronti di ciò che avviene nel nostro corpo, e fa affiorare queste reazioni nella parte cosciente della mente. Attraverso questo processo, il meditante può trasformare le autoidentificazioni somatiche primitive, che avrebbero potuto provocare sofferenza, in consapevolezza e capacità di libera scelta.

Le due qualità della vipassana
La vipassana sviluppa in noi due importanti qualità: la consapevolezza dell’origine del senso dell’io, che risiede nelle sensazioni corporee, e l’equanimità. Quest’ultima è la capacità  di osservare un’infinità di sensazioni sottili e i loro equivalenti mentali, senza formulare giudizi o innescare reazioni, perché ci si rende conto che si tratta di fenomeni effimeri, transitori, che non sono il sé. Questo permette un progressivo distacco dalla precedente identificazione, inconscia e oppressiva, con il piacere e il dolore fisico. Il sentiero della vipassana trascende il principio del piacere.
Le psicoterapia occidentali moderne si basano sulla valutazione, sull’analisi e sull’eliminazione di complessi. Alcuni dei loro metodi e obiettivi sono molto simili a quelli della vipassana. Entrambe le tecniche prescrivono, come via di guarigione, la consapevolezza sistematica, la conoscenza di sé e la libertà dai condizionamenti passati.

Nel migliore dei casi, gli avvenimenti dipendono solo parzialmente da me; ma le mie reazioni si manifestano all’interno della mia vita fisica e della mia identificazione con me stesso: finiscono dunque per essere sotto il mio controllo. Io non soffro in conseguenza di quanto mi è accaduto, ma perché sono stato incapace di staccarmi dalle reazioni a quegli eventi che si sono prodotte all’interno della mia mente e del mio corpo.

La vipassana ci rende responsabili perché, attraverso l’introspezione, ci rivela che noi diventiamo le nostre reazioni, diventiamo ciò a cui attribuiamo valore. Il sentiero consiste nel fare di ogni pensiero, in ogni momento, un seme d’equanimità che darà frutti d’amore e di pace.
Gli psicologi riconosceranno in questo aspetto della pratica il fondamento dell’assunzione di responsabilità nella formazione del sintomo e nel capovolgimento del sintomo. Questo implicherà una visione universale, naturale e scientifica al tempo stesso, libera da dogmatismi e autoritarismi.
La vipassana è libera da guro, costumi esotici, elementi rituali etnocentrici. Invece di favorire una dipendenza cieca dal maestro, la vipassana suscita rispetto e gratitudine per la tecnica.

Le pareti del nostro mondo sono costruite dal nostro modo di pensare, di agire, di dare.

La vipassana è un’antichissima psicologia di sviluppo spirituale ed è gratuita, non professionale, non settaria, etica e universale. Si basa sull’osservazione obiettiva, metodica e continua delle sensazioni che si manifestano nel nostro corpo. Questa particolare forma di osservazione provoca uno sviluppo sistematico, a tutti i livelli, di ogni strato della nostra personalità. In parte, il contributo unico che la vipassana fornisce alla salute mentale deriva dalla sua “costellazione di azioni psicologiche. Si può affermare che la vipassana è la creazione, attraverso la meditazione, di un capo energetico che attiva nuovi modelli in sei livelli della personalità.
  • Provoca mutamenti a livello molecolare nel corpo del meditante. La sistematica auto-osservazione non reattiva sempre più fine e penetrante altera il flusso delle sostanze chimiche correlate con lo stress.
  • Cambia la biologia del corpo del meditante. Mutano gli schemi di reazione e la composizione neurochimica, e lo stile di vita è sempre più improntato alla consapevolezza e alla compassione, ne sono influenzati il sonno, la dieta e i modi in cui si manifestano il dolore e il piacere.
  • Ha un effetto straordinario a livello psicologico. Si eliminano vecchi complessi, si coltivano nuovi atteggiamenti e qualità, riemergono i ricordi, i rapporti sono visti e sviluppati in una luce nuova, si scompongono le prospettive future e le si impostano in un’altra maniera.
  • Educa ai valori morali.
  • È una psicologia ambientale che promuove l’armonia. La maggior parte di ciò che ci capita dipende dal modo in cui trattiamo il mondo.
  • È la via che porta al nibbāna, alla trascendenza del mondo materiale.

L’impermanenza dell’impermanenza
Aniccā (lingua pali, usata ai tempi del Buddha) = l’impermanenza, il cambiamento. È un segnale un indicatore di direzione, come i tumuli di pietre che il pellegrino incontra sui sentieri dell’Himalaya, che sembrano abbracciare le nuvole, segnali che mostrano la via tracciata da altri pellegrini.


Fonte: Karma e Caos
 

sabato 14 aprile 2012

L’ultimo viaggio – Stanislav Grof

Morte e rinascita nei riti di passaggio
I riti di passaggio segnano un cambiamento decisivo nella vita di un individuo o di una cultura. La scelta del momento opportuno coincide con cambiamenti fisiologici importanti come la nascita, la circoncisione, la pubertà, il matrimonio, la menopausa e la morte: occasioni nella quali il corpo, la psiche e il ruolo sacro degli iniziati cambiano in modo significativo.
Rituali di questo tipo vengono celebrati anche per l’iniziazione l rango di guerriero, l’accettazione nelle società segrete, alcune feste legate al calendario, le migrazioni di gruppi umani  nuovi territori.

Nelle civiltà industrializzate dell’Occidente i periodi più significativi di transizione da una fase all’altra della vita sono generalmente carichi di valenze negative. Questo è sicuramente vero per la pubertà, la mezza età, la vecchiaia e, ovviamente, la morte.
Il morente è spesso visto come un peso sociale ed economico.

La transizione
Nella seconda fase, che Gennep ha chiamato “transizione”, i neofiti passano da un apprendimento principalmente intellettuale a profonde esperienze dirette di stati olotropici di coscienza, indotti da potenti tecniche in grado di alterare la mente: “tecnologie del sacro”.

Tra le più potenti tecnologie del sacro vi sono diverse piante psichedeliche. Il loro uso a fini rituali e spirituali risale a migliaia di anni fa.
La pozioni leggendaria divina, chiamata haoma nell’antico testo persiano Zend Avesta e soma in India, era conosciuta migliaia di anni fa dalle tribù indo-iraniane e probabilmente fu la fonte più importante della religione e della filosofia vedica.
Le preparazioni ottenute da differenti varietà di canapa venivano fumate e ingerite sotto forme diverse (hashish, charas, bhang, ganja, kif, marijuana) in Oriente, in Africa e nell’area caraibica per svago, per piacere e durante le cerimonie religiose: hanno rappresentato un importante sacramento per gruppi molto diversi, come i Bramini, alcuni ordini di Sufi, gli antichi Sciti e i Rasta giamaicani.

L’uso cerimoniale di vari materiali psichedelici ha una lunga storia nell’America Centrale. Le piante che provocano l’alterazione dello stato mentale erano ben conosciute presso diverse culture indiane preispaniche, tra cui gli Atzechi, i Maya e i Toltechi.
Le più famose sono il cactus peyote messicano (Lophophora williamsii), il sacro fungo teonanacatl (Psilocybe mexicana) e ololiuqui, semi di diverse varietà del Morning Glory (Ipomoea violacea e Turbina corymbosa). Queste sostanze sono usate ancora oggi nelle cerimonie di consacrazione dai Huicholes, dai Mazatec, dai Chichimeca, dai Cora, e da altre tribù del Messico, come pure dalla Native American Church.
Il famoso yajé o ayahuasca sudamericano è un decotto ottenuto con una liana della giungla (Banisteriopsis caapi) e con altre piante.

Le tribù aborigene dell’Africa ingeriscono e inalano preparati ricavati dalla corteccia dell’arbusto iboga (Tabernanthe iboga), che utilizzano in piccole quantità come stimolante e in dosi maggiori per i rituali di iniaziazione di uomini e donne.

Composti psichedelici di origine animale comprendono le secrezioni della pelle di alcuni rospi (Bufo alvarius) e la carne del pesce Kyphosus fuscus che si trova nel Pacifico.

Il rito di passaggio Okipa
Un esempio di un rito di passaggio particolarmente potente e complesso è la festa Okipa dei Mandans, una tribù di indiani delle Grandi Pianure del Nord America che vivevano sul fiume Missouri.
Questo rituale, che comportava la mutilazione e un fortissimo dolore fisico, dimostra quanto alcune culture valutino le esperienze di trasformazione e a quali estremi siano disposte a spingersi nel perseguirle, anche se molti altri riti di passaggio non sono così radicali ed elaborati quanto la festa Okipa.

Gli antichi misteri di morte e rinascita
Nel mondo antico i misteri della morte e della rinascita rappresentano un’altra forma importante di addestramento alla morte. Si tratta di eventi rituali basati su storie mitologiche di varie divinità che erano morte e tornate alla vita o che avevano visitato gli inferi, il regno dei morti, ed erano riapparse incolumi.
Capire le dinamiche di questi eventi e il loro legame con le storie di morte e di rinascita degli dèi e degli eroi richiede un’interpretazione completamente nuova della natura e della funzione dei miti.
I miti sono tradizionalmente considerati il prodotto della fantasia e dell’immaginazione. Tuttavia le opere di Jung e Joseph Campbell hanno contribuito a un’interpretazione radicalmente nuova della mitologia.
Secondo questi studiosi i miti non raccontano le avventure fittizie di personaggi immaginari in luoghi inesistenti, non sono il prodotto arbitrario della fantasia di alcuni individui, ma piuttosto hanno la loro origine nell’inconscio collettivo dell’umanità e sono manifestazioni di quei principi primordiali che mettono ordine nella psiche e nel mondo, e che Jung ha chiamato “archetipi”.

Gli archetipi e il mondo imaginale
Gli archetipi sono principi primordiali eterni che stanno alla base del mondo materiale, formandone e informandone la struttura.
La tendenza a interpretare il mondo in termini di principi archetipici è apparsa per la prima volta nella Grecia antica e fu una della caratteristiche più singolari della filosofia e della cultura greche.
Gli archetipi possono essere visti da diverse prospettive.
I poemi omerici presero la forma di figure mitologiche personificate o di divinità, come Zeus, Poseidone, Era, Afrodite, Ares.

Nella filosofia di Platone erano descritti come puri principi metafisici trascendenti: Idee, Forme, O Archai divini che esistevano indipendentemente in un regno non accessibile ai sensi dell’uomo. In tempi moderni, Jung ha fatto rivivere e ha riformulato il concetto di archetipo descrivendolo principalmente come principio psicologico.
Gli junghiani si riferiscono al mondo delle figure e dei domini archetipici come “imaginale” per distinguerlo dai prodotti immaginari della mente umana. Benché vi si possa avere accesso attraverso l’autoesplorazione intrapsichica, il mondo imaginale possiede un’esistenza oggettiva.
Gli archetipi sono essenze atemporali, principi ordinatori del cosmo che possono manifestarsi anche sotto forma di personificazioni mitiche o divinità specifiche di varie culture.
Si esprimono attraverso la psiche e i processi profondi dell’individuo, ma non hanno origine nella mente dell’uomo né sono da essa prodotti. Trascendono la psiche dell’individuo e funzionano come principi che la governano. Stando agli ultimi lavori di jung, gli archetipi hanno una natura “psicoide”; operano nella zona crepuscolare che si colloca tra la coscienza e la materia. Modellano non solo i processi della psiche umana, ma anche gli eventi del mondo fisico e della storia dell’uomo.
L’inconscio collettivo rappresenta la comune eredità culturale di tutta l’umanità nel corso dei secoli.

L’eroe dai mille volti
L’eroe dai mille volti (1948), testo di Joseph Campbell, fu un libro innovatore che nei decenni successivi influenzò profondamente la ricerca e la comprensione dell’argomento.
Analizzando un ampio spettro di miti provenienti da diverse regioni del pianeta, Campbell si rese conto che tutti contenevano variazioni di una formula archetipica universale, che chiamò “monomito”. Era la storia dell’eroe, maschio o femmina, che lascia la sua casa e, dopo fantastiche avventure, vi ritorna come essere deificato. Campbell trovò che l’archetipo del viaggio dell’eroe si svolge in tre fasi peculiari, simili a quelle descritte come le sequenze caratteristiche dei tradizionali riti di passaggio: separazione, iniziazione e ritorno.

L’eroe lascia il territorio familiare, volontariamente o costretto da una forza esterna, subisce una trasformazione attraverso una serie straordinaria di prove e avventure e, infine, viene di nuovo accolto nel suo ambiente originario con un ruolo diverso.

Il mito del viaggio dell’eroe inizia quando la vita quotidiana del protagonista viene interrotta improvvisamente con l’intrusione di elementi di natura magica che appartengono a un diverso ordine di realtà.
Campbell si riferisce a questo invito all’avventura come alla “chiamata”. Se l’eroe risponde alla chiamata e accetta la sfida, si imbarca in un’avventura che comprende molteplici sfide, visite a strani territori, incontri con animali fantastici ed esseri sovrumani.
L’avventura spesso culmina in un’esperienza di morte e di successiva rinascita. Dopo aver compiuto il viaggio con successo, l’eroe torna a casa e vive una vita gratificante come essere deificato: come leader riconosciuto, guaritore, veggente o maestro spirituale.

Il monomito del viaggio dell’eroe rappresenta la fotocopia della crisi trasformatrice che tutti gli esseri umani possono sperimentare quando i contenuti profondi dell’inconscio emergono alla coscienza. Il viaggio dell’eroe non fa che descrivere il terreno di esperienze che l’individuo deve attraversare durante i periodi di profonda trasformazione.

La morte e la rinascita degli dèi e degli eroi
In una forma simbolica sicuramente meno ovvia, lo stesso motivo è a volte rappresentato dall’esperienza di essere divorati e rigurgitati da mostri terrificanti per poi riuscire a scappare: dal biblico Giona, che passò 3 giorni e 3 notti nella pancia del “grande pesce”, al greco Giasone e a Santa Margarita di Antiochia, che vennero entrambi ingoiati dal drago.

La ricerca psichedelica e le terapie sperimentali hanno dimostrato che l’archetipo della morte e della rinascita è legato alla nascita e questo spiega perché sia un motivo così universale che appare tanto frequentemente nella mitologia. Il passaggio attraverso il canale del parto è un evento che minaccia la vita: ecco perché nel nostro inconscio morte e nascita sono profondamente connesse. Ed è questo il motivo per cui le sequenze di morte e di rinascita psicologica sono quelle che più frequentemente si osservano negli stati olotropici, spontanei o indotti artificialmente. Queste giocano un ruolo estremamente importante nel processo psicologico di trasformazione della personalità e di apertura spirituale.

I misteri di morte e rinascita
Il molte zone del mondo i miti della morte e della rinascita forniscono la base ideologica per i “sacri misteri”, potenti eventi rituali nei quali i neofiti sperimentano la morte e la rinascita e una profonda trasformazione psico-spirituale. Ben poco si sa sulle tecniche usate per indurre stati olotropici: i misteri venivano mantenuti segreti oppure nel corso del tempo è andata persa la specifica informazione che li riguarda. Tuttavia è probabile che le procedure fossero simili a quelle usate nei rituali sciamanici e nei riti di passaggio: tamburella menti, canti, danze, cambiamenti nel ritmo del respiro, esposizione a stress, dolore e situazioni che minacciano la vita, apparentemente o realmente.
Tra gli strumenti più efficaci senza dubbio vi erano pozioni che contenevano sostanze vegetali dalle proprietà psicoattive.
Le esperienze potenti, e spesso terrificanti, indotte negli iniziati rappresentavano un’occasione unica per mettersi in contatto con le divinità o con i domini divini ed erano vissute come necessarie, desiderabili e, infine, guaritrici. In alcuni casi, inoltre, l’esposizione volontaria a questi stati estremi di coscienza era considerata una protezione contro la vera pazzia.
Gli antichi Greci si rendevano conto che le forze pericolose nosacsote nella psiche devono essere espresse in un contesto adeguato.
Nel dialogo Fedro, Platone parla di quattro tipi di follia conferiti dagli dèi: la mania erotica, dovuta alla possessione di Afrodite ed Eros; la mania profetica, causata dall’intervento di Apollo; la mania artistica, dovuta all’ispirazione di una delle Muse e la mania rituale, o telestica, provocata da Dioniso.

In grande filosofo descrive in modo vigoroso il potenziale terapeutico della mania telestica portando a esempio un tipo di mistero greco meno conosciuto, i riti coribantici: consistevano in una serie di danze selvagge al suono dei flauti e dei tamburi culminanti in un’esplosiva liberazione di emozioni che induceva uno stato di profondo rilassamento e tranquillità.

Fu Aristotele, celebre discepolo di Platone, il primo a dichiarare esplicitamente che il processo di sperimentare e liberare pienamente le emozioni represse, da lui chiamato “catarsi” (purificazione), era un efficace trattamento dei disturbi mentali.

Aristotele affermava che i misteri della morte e della rinascita fornivano un potente contesto per questo processo. Sosteneva la tesi fondamentale del culto orfico (una delle più importanti scuole mistiche del tempo), secondo la quale il caos e il delirio dei misteri conducevano a un ordine superiore.

Tra i misteri di morte e di rinascita più antichi ci sono i riti babilonesi e assiri di Ishtar e di Tammuz, basati sul mito della Dea Madre Inanna (Ishtar) e della sua discesa agli inferi governati dalla sorella, la terribile dea Ereshkiga. Lo scopo del viaggio di Ishtar era di ottenere un elisir per riportare alla vita il dio della vegetazione Tammus, che era sia suo figlio che suo marito.

Negli antichi templi egizi di Iside e Osiride, gli iniziati si sottoponevano a prove complesse sotto la guida dei sommi sacerdoti per superare la paura della morte e ottenere l’accesso alle conoscenze esoteriche sull’universo e sulla natura umana.
Nel corso di questo processo, i neofiti sperimentavano l’identificazione con il dio Osiride che, secondo il mito sul quale si basavano i misteri, fu ucciso e smembrato da Seth, il suo malvagio fratello. Successivamente, Osiride fu riportato in vita dalle due sorelle, Iside e Nefti, e divenne sovrano degli inferi. In questo contesto il tema della morte e della rinascita era legato al ciclo giorno-notte e al viaggio archetipico del dio Sole attraverso il Cielo e gli Inferi.

I misteri eleusini, i più importanti dell’antichità, furono celebrati per quasi 2000 anni (1500 a.C – 400 d.C) a Eleusi, una città situata a circa 25 chilometri a occidente di Atene; erano basati su un’interpretazione del mito di Demetra, dea greca della fertilità, e di sua figlia Persefone. Persefone fu rapita da Ade, il dio degli inferi, ma in seguito all’intervento di Zeus, questi la lasciò libera a condizione che tornasse da lui ogni anno per 4 mesi. Il marito, solitamente considerato un’allegoria della crescita ciclica delle piante nel corso delle stagioni, per gli iniziati ai misteri eleusini divenne il simbolo delle lotte spirituali dell’anima, periodicamente imprigionata nella materia e liberata.

Il culto orfico si concentrava sulla leggenda della deificazione di Orfeo, il bardo tracio impareggiabile musicista e cantore, che visitò gli inferi nel tentativo non riuscito di liberare l’amata Euridice dalla schiavitù della morte.
Lo stesso Orfeo morì tragicamente fatto a pezzi dalle donne dei Ciconi per aver interferito nei baccanali.
Secondo la leggenda, la sua testa decapitata, gettata nel fiume Ebro, continuò a cantare e ad annunciare oracoli.

I riti dionisiaci, o baccanali, erano basati sulla storia mitologica del giovane Dioniso che, dopo essere stato smembrato dai Titani, fu poi fatto risuscitare quando Pallade Atena recuperò il suo cuore. Nei riti dionisiaci gli iniziati sperimentavano l’identificazione con il dio ucciso e rinato grazie a bevande inebrianti, danze orgiastiche, corse nei campi e mangiando la carne cruda degli animali.

I misteri samotraci dei Coribanti (sacerdoti della dea Cibele) erano connessi strettamente alle celebrazioni dionisiache. Il dramma rituale che vi era associato descriveva l’omicidio di Cadmillo da parte dei suoi tre fratelli.

Il culto mitriaco, era una fede sorella del cristianesimo, cui contese il ruolo di religione del mondo. I santuari sotterranei mitriaci (mithraea) spaziavano dalle spiagge del Mar Nero fino alle montagne della Scozia e al confine del deserto del Sahara.

Il famoso mito di Adone, ispirò i misteri del mondo antico. Durante la sua gravidanza Smina, la madre, fu trasformata dagli dèi in un albero di mirra. Adone nacque quando un cinghiale aprì il tronco con le sue zanne liberando il neonato. Afrodite fu così affascinata dalla bellezza di Adone che lo affidò alle cure di Persefone, dea degli inferi. Quando più tardi Persefone si rifiutò di restituirlo, Zeus decise che Adone avrebbe vissuto un terzo dell’anno con Persefone e un terzo con Afrodite. Il rimanente terzo fu lasciato alla sua discrezione, ma la leggenda vuole che Adone trascorresse sempre due terzi di ogni anno con Afrodite.

Il mito che soggiace ai misteri nordici di Odino (Wotan) si riferisce alla storia dell’assassinio e della resurrezione di Balder, il figlio favorito di Odino. Balder era giovane e bello ed era l’unico dio pacifico di Valhalla. Loki, l’imbroglione, la personificazione del male, convinse con l’inganno il dio cieco del fato Hoder a colpire Balder con una freccia di vischio, l’unica rama che poteva ferirlo. Balder fy trafitto al cuore e morì. La dea della morte Hel, mossa dalle suppliche degli dèi affranti, promise di far ritornare Balder nella terra dei vivi a una condizione: ogni cosa nel mondo, morta o viva, doveva piangere per lui. In effetti ogni cosa pianse eccetto Loki, e così Balder dovette rimanere negli inferi. Tuttavia, il mito predisse che dopo la battaglia finale di Ragnarok, quando un nuovo mondo sarebbe sorto dalle sue ceneri, Balder sarebbe rinato. Nei misteri di Odino il neofita beveva idromele santificato da una tazza ricavata da un teschio. Identificandosi con Balder, si sottoponeva a un’ardua prova in un complesso di nove stanze sotterranee, superata la quale era in grado di svelare il mistero di odino con i più preziosi segreti della natura e dell’animo umano.

Nei misteri druidici della Bretagna, il confine tra morte simbolica e morte biologica era piuttosto confuso. Dopo essere stato seppellito vivo in una bara, il candidato era mandato in mare su una barca aperta, una messa in scena simbolica della morte del dio Sole.
In questa singolare ordalia molti iniziati perdevano la vita; coloro che sopravvivevano all’ostico rituale erano definiti “rinati”.

I dettagli e le tecniche utilizzate per alterare lo stato mentale nel corso di questi riti segreti sono rimasti per lo più sconosciuti.

Tuttavia, il kykeon, la sacra pozione che svolgeva un ruolo cruciale nei misteri eleusini era molto probabilmente una mistura contenete alcaloidi di segale cornuta, simile all’LSD. È anche molto probabile che nei baccanali e in altri tipi di rituali fossero implicate sostanze psichedeliche.

Negli stati olotropici questo materiale mitologico emerge spontaneamente dalle profondità della psiche senza alcuna programmazione e spesso sorprende tutti coloro che vi sono coinvolti.
Immagini archetipiche e intere scene tratte dalla mitologia di varie culture spesso appaiono nelle esperienze di individui che non hanno alcuna cognizione delle figure mitiche e dei temi in cui si imbattono. 


Fonte: l'ultimo viaggioStanislav Grof  

giovedì 1 marzo 2012

Psicosintesi – Roberto Assagioli

La tendenza della vita è di conservare e accrescere se stessa; perciò una vera e propria “lotta per la vita” avviene in noi.
Se non ci fosse questo, esisterebbe un caos irriducibile, un atomismo, una polverizzazione psichica. Ma in realtà non è così: quegli elementi non restano in noi isolati, essi tendono a consociarsi, ad organizzarsi.
Le principali funzioni e i più importanti atteggiamenti e rapporti umani formano la trama e le linee direttive della nostra vita, e formano delle vere e proprie subpersonalità, dei diversi “io” in noi. Oltre a ciò che noi siamo per noi stessi, vi sono dunque vari gruppi di “io” in noi.

Vi sono così un “io” filiale, un “io” coniugale, un “io” paterno o materno, un “io” sociale, un “io”professionale, un “io” di casta, un “io” nazionale.

William James dice: “un uomo ha tanti “io sociali”, quanti sono gli individui che lo conoscono e portano l’immagine di lui nella mente …
Ma siccome gli individui che portano in loro quella immagine si dividono in tante classi, possiamo dire che un uomo ha tanto “io” quanti sono i gruppi di persone della cui opinione egli si preoccupa”.

James è stato precursore di Pirandello, la cui tesi principale è: ci sono tanti “io”, tanti esseri contradditori in noi quante sono le apparenze, le immagini che si riflettono negli altri e che sono costruite dagli altri. Ed egli mostra come spesso questi “io” siano molto scomodi!

Inoltre, vi sono in noi personalità diverse che si susseguono nel tempo: “io” infantile, “io” adolescente, “io” del giovane, “io” dell’adulto …

Non rammarichiamoci di questa ricchezza interna per quanto tumultuosa e scomoda.

L’unità tra questi “io” è possibile, ma essa non è un punto di partenza, non è un dono gratuito; è una conquista, è l’alto premio di una lunga opera; opera faticosa, ma magnifica, varia, affascinante, feconda per noi e per gli altri, ancor prima di essere ultimata.
Così intendo la Psicosintesi.

L’inconscio e la sua esplorazione
Una differenza fondamentale che esiste nel nostro animo è quella fra la parte cosciente e quella inconscia.
È necessario, allo scopo di avere una visione d’insieme, rendersene conto.
Sembra che questa attività inconscia sia multipla; che varie correnti psichiche si svolgano in noi contemporaneamente durante il sogno: e il fatto che alcuni sogni sono assurdi, strani, come intrecciati, si spiegherebbe con l’ipotesi che essi siano come una fotografia composta di due o tre correnti psichiche sovrapposte, intrecciate. È la teoria di F. Focault che ha varie osservazioni in suo appoggio.

Ostacoli all’affioramento dell’inconscio:
  •  “repressione” e “rimozione”. Lo scacciare certi fatti dalla nostra psiche spesso non fa che renderli più liberi di scorrazzare, di insidiare l’inconscio, come delinquenti che tanto più operano indisturbati, quanto più se ne nega l’esistenza.
  • La concentrazione della nostra attenzione è sfavorevole all’affioramento degli elementi inconsci. Tutto quello che possiamo ricordare, che è depositato nella nostra memoria, è subcosciente.
  •  Dai sogni non si può conoscere l’intero nostro incpnscio, perché non di rado essi rivelano solamente una sezione di esso, generalmente quella inferiore. Bisogn quindi aggiungere a questa analisi l’esame, l’esplorazione dei vari livelli dell’inconscio.

Possiamo studiare l’inconscio direttamente mettendoci di proposito a penetrarlo. Questo si può fare in due modi:
Passivamente, lasciandolo affiorare mentre manteniamo l’attenzione vigile, l’atteggiamento dell’osservatore impersonale, senza reagire.
Attivamente, esplorando metodicamente, spostando volontariamente la coscienza, l’attenzione. Richiede raccoglimento interno in cui vengono messe da parte tutte le attività ordinarie coscienti. Occorre sgombrare il campo, fare il “vuoto” nella nostra coscienza di veglia, alleggerirla da idee, preoccupazioni, emozioni, impulsi.

Che cos’è la sintesi
Vi è nella psiche umana la tendenza fondamentale all’unione, alla sintesi (dal greco: syn-thesis, che significa composizione).

L’atomo è un delicato equilibrio di attrazioni e di repulsioni, di forze centripete e centrifughe. Basta la proiezione e lo spostamento di un elettrone per cambiare le proprietà di un atomo, per produrre radiazioni di ogni genere, vibrazioni elettromagnetiche, fenomeni luminosi che sprigionano somme enormi di energia.

Durante la veglia prevalgono le funzioni cataboliche, l’attività esterna, la vita di relazione. Nel sonno prevale, l’attività anabolica, per la riparazione e la conservazione dell’organismo. Ogni qualvolta una di queste fasi prevale eccessivamente sull’altra si ha una malattia.

Una manifestazione morbosa ancora più accentuata, dovuta al difetto del potere di regolazione, sono i tumori. Questi sono formati da cellule ribelli, che non obbediscono al ritmo normale dell’accrescimento.

La sensazione, che era ritenuta dai sensisti un fatto semplice ed elementare, come l’atomo dai chimici, è invece, alla pari e più di questo, un fenomeno complesso.

Leibniz dimostra come in realtà la sensazione sia l’aggrupparsi di numerosi piccoli elementi non percepiti chiaramente, cioè, con termine moderno, subcoscienti.

Giordano Bruno: “Chi vuol sapere i grossi segreti di natura riguardi e contempli circa i minimi ed i massimi dei contrari e opposti. Profonda magia è saper trarre il contrario, dopo aver trovato il punto di unione”.

Anche nella vita psichica, come nella vita organica, troviamo un ritmico alternarsi di due principi opposti, quello dell’estroversione e quello dell’introversione.

Estroversione o moto centrifugo = volgere l’interesse vitale all’esterno (ciò che nella vita organica è il catabolismo, vita di relazione, di dispendio, di dispersione d energie)

Introversione o moto centripeto = volgere l’interesse, l’attività, all’interno, (corrisponde all’anabolismo)

Si può essere estroversi in un campo e introversi nell’altro. 

Una successione armonica di questi movimenti dovrebbe costituire il ritmo della vita. E per arrivare a questo ritmo è necessaria “un’arte di vivere”.

Come la vita organica non è abolizione del contrasto fra catabolismo e anabolismo, fra la vita di relazione, di consumo, e la vita di ricostruzione, così nella vita psichica non si tratta di annullare uno dei termini a favore dell’altro. Occorre mantenerli entrambi; occorre che permanga una “tensione” fra essi, ma una tensione creativa. Bisogna obbligarli ad integrarsi in una vita più ampia, in una realtà superiore che li comprenda ed insieme li trascenda. Questa è la vera sintesi. Per attuarla occorre la presenza, l’azione potente di un più alto principio regolatore. Tale principio nel suo aspetto più elevato è l’elemento spirituale, che di solito resta più o meno latente nell’animo, ma che, quando si sprigiona e diviene efficiente, porta ordine, armonia, bellezza, gioia.

Tipi e gradi della psicosintesi
La passione è stata definita quale “un desiderio allo stato violento e cronico”.
Una pssione è una forza potente e pericolosa che bisogna saper maneggiare. Affinché una passione sia benefica e feconda e non distruttiva, occorrono due cose: anzitutto che il suo fine sia nobile ed elevato. Però questo non basta, anzi non è sempre vero; talvolta anche una passione egoistica può produrre del bene. L’ambizione, la sete di denaro, creano industrie e portano a scoperte, a invenzioni.

D’altra parte anche una passione nobile può essere pericolosa ed avere effetti nocivi se diviene eccessiva.

Altri pericoli insidiosi di passioni nobili sono: il fanatismo, l’intolleranza, l’orgoglio e la durezza.

Occorre dunque essere padroni e non schiavi di qualsiasi passione, anche delle migliori. E questo richiede la presenza e l’attività di un Centro superiore, di una visione più ampia, di una volontà sveglia e potente che sappia “tenere in mano” la passione, farla elemento, strumento di una sintesi più vasta, individuale e superindividuale.

Tenere in mano la passione non vuol dire distruggerla. Essa è forza, vita e fuoco.
Deve divenire consacrata a quello e non volta, come negli ambiziosi e negli avidi, al raggiungimento di fini egoistici e personali.

Non è quello che si fa, ma come lo si fa.
Si tratta, primo, di avere una chiara visione del tipo o “modello ideale” della speciale funzione che si è chiamati a compiere o che abbiamo prescelto; secondo, di proporci di attuarla nel modo migliore possibile.

… vediamo persone che compiono in modo meschino e ristretto il proprio compito, che si isteriliscono e si inaridiscono in esso: o si gonfiano che ridicola vanità e presunzione per l’importanza sociale – reale o supposta – della loro carica.

… vi sono limitazioni e costrizioni della parte che si deve recitare nella società, e mutilazioni che essa impone.
Quando uno ha accettato una funzione, viene dalla società costretto a rappresentare quella e solamente quella. Se un individuo è poeta non può essere, per la società, che poeta. Se fa anche il calzolaio, non è preso in considerazione né come calzolaio né come poeta.

Chi si identifica completamente ed esclusivamente col proprio compito, per quanto nobile esso sia, tende necessariamente a reprimere nell’inconscio, a lasciare non sviluppate, atrofiche, altre parti della psiche, che non rientrano in quella funzione, ma che pure sono vitali ed avrebbero diritto ad un adeguato sviluppo e ad una opportuna espressione.

Per andare verso la propria psicosintesi occorre riconoscere che le qualità che vediamo nell’altro sesso sono manifestazioni, proiezioni esterne, per così dire, di qualità e facoltà rimaste in noi latenti, rudimentali, represse nel nostro inconscio.

“Il valore intellettuale e morale di una personalità, è del tutto indipendente dai sintomi morbosi che possono affliggerla e che essa può avere in comune con altre personalità inferiori o veramente degenerate.
Se è vero che santa Teresa, santa Caterina da Siena e tante altre nobili figure di religiose sono state affette da isterismo ciò non deve diminuire la nostra ammirazione per le loro doti spirituali; dobbiamo invece modificare la nostra opinione sul carattere delle isteriche. Se fosse, vero, come ha preteso di dimostrare un certo medico francese, che Gesù, quel sublime ideale di umanità, sia stato un pazzo, ciò vorrebbe dire soltanto che la pazzia sarebbe infinitamente superiore alla saviezza dei normali … compresi gli psichiatri”.

Il mito è una “realtà psicologica” di grande efficacia; un Grande Essere risulta un misto di realtà e di qualità aggiunte, proiettate dalla fede di chi lo ammira.

Vi sono però dei pericoli:
  • restare sopraffatti, abbagliati dalla grandezza degli Eroi dello Spirito
  •  la proiezione senza introiezione; si ammirano le qualità di un altro essere senza cercar di viverle in noi; si porta cioè il nostro centro nell’essere ammirato e si resta quindi “fuori di sé”
  • imitazione meccanica, formale. Scimmiottare esterno, esagerato, di alcune caratteristiche di una data personalità fino a farne una caricatura

Come evitare questo? Non dimenticare che la nostra immagine di un Grande Essere è un misto variabile di realtà e di idealizzazione.

L’Io quale centro unificatore
Nel nostro esame delle varie forme e dei vari tipi di psicosintesi, abbiamo fin’ora preso in considerazione quelli nei quali il centro unificatore è costituito da una tendenza della personalità (es. da una passione) o da una funzione vitale, cioè la maternità; o da una attività o un compito sociale, professionale …; o infine da un “modello ideale” che ammiriamo.
Ma questi centri unificatori non sono atti a produrre una psicosintesi completa, né una psicosintesi indipendente ed autonoma, cioè non bastata su elementi estranei al vero essere individuale.

Per attuare una psicosintesi di tal genere occorre un centro unificatore che abbia altri caratteri.
Questo centro deve essere di natura diversa da quella di tutti gli elementi singoli e particolari che costituiscono la nostra psiche.
Esso deve essere diverso e superiore ad essi perché solo così può avere il potere di dominarli, dirigerli, comporli in una unità organica.
Tale Centro non deve essere qualche cosa di esterno alla personalità, bensì intimo ad essa, qualcosa di veramente “centrale”. Tentiamo di portar luce, armonia in noi stessi, tentiamo di riconoscere, fra gli innumerevoli pensieri, sentimenti, impulsi che si avvicendano, quelli che sono veramente l’espressione del nostro essere più vero e più profondo e quelli invece che provengono da suggestioni esterne o da tendenze istintive, e ci sforziamo di dominare e di eliminare quelle che riconosciamo non nostre e non degne di noi.
Ma dobbiamo riconoscere, se vogliamo essere sinceri, che tali tentativi hanno spesso un risultato ben poco soddisfacente; essi restano un’aspirazione non appagata.
Le opinioni e le tendenze suggeriteci dall’ambiente si mascherano facilmente per nostre, senza che ce ne accorgiamo, mentre spesso mettiamo in dubbio e respingiamo le nostre intuizioni più elevate.
Gli istinti, le passioni, le abitudini che tentiamo di dominare resistono ostinatamente ai nostri sforzi e sfuggono abilmente alla nostra presa, celandosi nell’inconscio, donde poi si insinuano subdolamente in noi e ci assalgono violentemente, di sorpresa, e nell’uno o nell’altro modo ci sopraffanno.

Innumerevoli sono le identificazioni col corpo, con le emozioni, con le funzioni che svolgiamo.
Se ad esempio un sentimento triste viene ad occupare la nostra coscienza, noi diciamo: “Io sono triste”. Se una sensazione di stanchezza la occupa, esclamiamo: “Io sono stanco”.
Se proviamo un seno di languore allo stomaco diciamo: “Io ho fame” …
Nello stesso modo ci identifichiamo con particolari caratteristiche fisiche, morali, intellettuali, sociali, che rispecchiano solo aspetti parziali di noi stessi; così diciamo via via: io sono bello o brutto, io sono forte o debole, io sono uomo o donna, io sono padre o figlio, io sono idealista o positivista …

A volte se ci sentiamo tristi per qualcosa, e poi questa cosa cambia, anche noi cambiamo e diciamo “Ora mi sembra di essere un’altra persona!”. Questa esclamazione indica che la persona sa di non essere realmente un’altra persona, mentre l’Io fenomenico cosciente si identifica via via con i vari contenuti della coscienza, vi è qualcosa in noi che non si identifica, che non cambia col cambiare degli stati d’animo, che resta sempre eguale, fisso, inattaccabile.
Questo è il nostro vero IO, il Centro della nostra individualità, la sostanza stessa del nostro essere.

Se si riesce ad arrestare per qualche istante la “corrente mentale”, a tenere il campo della coscienza libero dagli stati d’animo che di solito lo occupano, si può giungere ad avere una certa coscienza dell’Io superiore.
È una esperienza non facile, che richiede particolari condizioni. Continuamente sensazioni interne ed esterne invadono il campo della coscienza, continuamente sorgono in noi sentimenti, emozioni, pensieri, ed è arduo respingerli, distogliere da essi l’attenzione e rivolgerla e tenerla fissa sull’Io. Per poterlo fare occorrono pazienti esercizi di raccoglimento e di meditazione; oppure condizioni psichiche straordinarie in cui si produca la sospensione dell’attività mentale consueta.

“Conosci te stesso” non vuol dire soltanto “analizza i tuoi pensieri, i tuoi sentimenti, esamina le tue attività”; esso significa: “scopri il tuo Io più intimo, il tuo vero essere, apprendi le sue mirabili potenzialità”.

L’Io in realtà ed essenza è UNICO. Ciò che noi chiamiamo “Io ordinario” è quel tanto dell’Io superiore” che la coscienza di veglia sa accogliere, assimilare, attuare in un dato momento. Esso è quindi qualche cosa di contingente e di mutevole, una quantità variabile. È un riflesso che può divenire sempre più chiaro e vivido e che potrà forse anche un giorno arrivare ad unificarsi con la sua Sorgente.
Per dare un’idea concreta e quasi sensibile di questi rapporti fra l’Io profondo o superiore e l’Io ordinario empirico e delle loro connessioni con gli altri elementi della nostra vita psichica, trovo utile usare uno schema. Premetto che ogni schema con cui si cerchi di obbiettivare e fissare una realtà complessa, sottile, dinamica, qual è la vita psichica, non può apparire che semplicistico, inadeguato, incompleto. Ma, con questa riserva, ritengo che, come prima approssimazione, lo schema proposto possa recale qualche chiarimento, dare una prospettiva ed una inquadratura iniziale in cui disporre le nostre conoscenze.

Inoltre non si creda che questa concezione, questo riconoscimento del nostro più alto essere debba portare ad una esaltazione, ad una deificazione dell’Io individuale. Ciò avverrebbe solo se lo si considerasse isolato, avulso dalle sue naturali e intime connessioni con la Realtà, cioè con gli altri esseri, con Dio.
Essa invece è il modo di renderci più chiaro conto di tali connessioni e quindi di accoglierle e aderirvi in modo più consapevole e volenteroso.

Il valore spirituale e l’importanza pratica del riconoscimento dell’esistenza e della vera natura dell’Io, sono immensi. Tale riconoscimento costituisce una vera rivelazione; è l’inizio di una nuova vita, la chiave per risolvere tanti problemi, per comprendere tanti fatti della vita e la base necessaria per ogni opera di auto dominio, di liberazione e di rigenerazione: la vera PSICOSINTESI.

Non si deve credere che il campo dell’indagine dell’inconscio sia un campo esclusivamente riservato agli specialisti. Tutti dovrebbero cominciare a studiarlo e in questo studio dobbiamo volgerci tanto verso l’alto che verso il basso del nostro essere e sempre con sereno atteggiamento di osservatori.
In tutti noi esistono elementi inferiori, istintivi, che dobbiamo conoscere e disciplinare senza lasciarcene turbare e sgomentare. La loro esistenza per se stessa non è un “male”; l’importante è riconoscerli sinceramente e quindi farne uso degno. Ma non basta scoprire la parte inferiore di noi stessi; dobbiamo anche volgerci in alto.


Fonte: Psicosintesi - Roberto Assagioli - astrolabio