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domenica 29 luglio 2018

Battaglia per il presente – Henri Thomasson

Immerso ininterrottamente nel flusso dell’esistenza, modellato da ogni circostanza in cui si viene a trovare, succede che l’uomo veda rafforzarsi alcuni aspetti della sua manifestazione, instaurarsi determinate abitudini e formarsi atteggiamenti e opinioni che pretendono, spesso in buona fede, di esprimere al momento dato la sua tonalità. È così che in ogni circostanza egli dice “io” e s’immagina di essere interamente “se stesso” attraverso ciascuno dei personaggi cui man mano è identificato. E senza che egli se ne renda minimamente conto, tutti questi “io”, quasi sempre privi di rapporto tra loro, finiscono man mano per allontanarlo dalla propria “individualità”, cioè dal proprio “essere interiore”.

Come riconoscermi in questo amalgama di qualità, alcune delle quali mi appartengono in proprio e altre no? “Risalite alla vostra infanzia”, ci dice A., “e ritrovate il gusto suscitato in voi dalle impressioni di allora: ciò vi insegnerà molte cose sulla vostra essenza” …
Uno strano gusto, un gusto di cui un tempo ero saturo, e che oggi posso ritrovare solo giù nel profondo, dove a lungo è rimasto dimenticato, un gusto su cui oggi passa e ripassa l’ombra delle nostre azioni apprese, dei pregiudizi e delle immaginazioni invadenti …
Nonostante gli sforzi, mi riesce difficile distinguere la mia vera essenza, ma, in ogni movimento mentale o affettivo che sorge dentro di me, posso riconoscere senza ombra di dubbio i tratti della mia personalità.

PRIME ESPERIENZE
Cerco di sentirmi essere.
Dalla mia testa s’irradia un’energia capace di esercitare un potere su ciò che mi sta intorno e sul mio corpo, che essa percorre rendendo vivida la mia gioia ed esaltando la sensazione di vivere. Per poterla isolare, io concentro le forze su ciò che ne ritengo la fonte, e tra quel punto e il mio corpo si stabilisce una certa distanza. Per conoscere il mondo psichico che non ho ancora mai affrontato in tale modo, cerco di separalo dal corpo. Seduto a gambe accavallate, tento di essere soltanto quel “potere”: il corpo si allontana, non lo sento più; mi concentro ulteriormente: finirò per svenire? Dove sono? Il tentativo mi sembra pericoloso.
Lascio che le cose riprendano lentamente il loro posto.
Che cosa è successo? In quale momento è cessata la sensazione di essere? Sono le domande che ho fatto alla prima riunione seguita a questa esperienza.
“Il suo tentativo è completamente sbagliato. Al contrario, bisogna calmarsi, fare silenzio, ascoltare e raccogliere in sé tutta l’attenzione possibile. Bisogna decontrarsi al massimo: solo la decontrazione può aprire la strada che permette all’attenzione di attraversare la massa opaca dell’immaginazione e del corpo teso”.
Una decontrazione per svegliarmi? Il rilassamento muscolare non contribuisce piuttosto a preparare le condizioni del sonno?...
Ma di ben altro si tratta. Qui la decontrazione è una simultaneità di due sforzi essenzialmente molto diversi, il “rilassamento muscolare” e l’”attenzione”, con il corollario di un evento che testimonia la giustezza degli sforzi compiuti: la “sensazione di sé”.
Seduto a gambe accavallate, comincio a osservare me stesso, attento al silenzio che il pensiero immobile introduce di colpo nel mondo brulicante in cui mille preoccupazioni vorticano come falene intorno alla fiamma.
Il potere che irradia dallo stesso punto in cui sorge il pensiero, adesso lo chiamo “attenzione”. Diretta successivamente sulle varie parti del corpo, essa le percorre lentamente mentre io mi rilasso, cioè mentre sciolgo, prima in superficie e poi più profondamente, le tensioni che poco fa non sentivo nemmeno. All’interno di ogni livello muscolare se ne presenta un altro in cui l’attenzione cancella qualcosa. Sono perfettamente immobile, nulla si muove se non il respiro sempre più calmo e il cuore, il cui ritmo costante non subisce alcuna influenza da parte mia.
Mi sento aggredito da tutte le parti. Il corpo, inquieto, mendica un movimento, e ogni sua richiesta interrompe il flusso dell’attenzione; non solo, ma non appena si sviluppa insidiosamente la speranza di un risultato immediato, quel flusso addirittura svanisce, e nonostante uno sforzo tanto delicato quanto insistente, sopraggiungono alcuni pensieri a inaridirne di colpo la fonte.
L’unico modo per liberarmi dalle potenze che invadono solitamente il mondo dei pensieri e dei sentimenti è quello di ristabilire il contatto attenzione-corpo. I rendo conto che questa invasione rappresenta il mio stato abituale, cioè una condizione di sonno contrapposta allo stato di presenza a me stesso: presenza che posso sperimentare nella sua realtà solo quando cessa lo stato di sonno. La mia lotta consiste proprio nel ristabilire quel contatto, nonostante l’incessante attacco delle forze che cercano di riportarmi al livello ordinario.

Fonte: Battaglia per il presente di Henri Thomasson





lunedì 18 dicembre 2017

Battaglia per il presente – Henri Thomasson

RELIGIONE E INSEGNAMENTO: DUE PARALLELE CHE SI INCONTRANO PRIMA DELL’INFINITO

Una credenza cieca spesso rifiuta le lezioni dell’esperienza. Essa stabilisce nell’uomo un a-priori che ne annulla quasi totalmente l’imparzialità e gli toglie ogni possibilità di approfittare dell’esperienza.
La credenza diventa Fede, così come l’intende la religione, può essere altrettanto rigida sia nel restare ciecamente aggrappato ai dogmi, sia nel dirsi illuminata da un pensiero rotto alle mille sfumature dell’esegesi; e tuttavia, in entrambi i casi, essa è giustificata dalla effettiva comparsa di momenti esaltanti profondamente vissuti.
La Fede, così come spesso ci viene presentata, innalza una barriera intransigente intorno al mondo interiore dell’uomo meccanico, e l’uomo ne resta ciecamente rassicurato. Essa funge da risposta a molti problemi, e ogni volta che l’uomo per un istante percepisce l’ignoto che lo circonda da tutte le parti, essa lo salva dall’ignoranza e dalla paura dandogli un falso senso di sicurezza.
Ma la Fede ha assunto questo aspetto solo dopo un lungo percorso; partita da una Conoscenza Unica che è la sorgente di tutte le religioni autentiche, essa è gradualmente arrivata fino alla concezione semplicistica più rudimentale, l’unica accessibile alla maggioranza degli uomini che compongono la massa dell’umanità. A questo livello, tutto ciò che sfugge alla comprensione viene immagazzinato in una zona del sentimento dove esiste qualcosa che è stato predisposto per occuparsene, ma che è una caricatura della vera Fede.
Ecco perché le religioni – o perlomeno ciò che ho potuto ciò che ho potuto capirne – avendo preso contatto con la vera essenza della fonte da cui derivano, sono state costrette a presentare questo tipo di Fede come base fondamentale della loro dottrina.
Ogni ricerca basata sul bisogno di conoscenza o sul timore di un divenire misterioso induce il fedele di una religione a compiere una serie di sforzi che vanno dall’osservanza di regole più o meno costrittive all’ascesi spinta ai limiti del possibile.

Per lui si tratta della grazia santificante, germe della gloria promessa. È quindi giusto che la sua Fede ne sia confermata e che i suoi sforzi gli permettano di pervenire a un credo cui bisogna riconoscere un grande valore.
La virtù della preghiera, la scoperta della realtà divina in se stessi, la potenza della fede e, di conseguenza, la paura dell’inferno e del peccato: è assurdo negare che ciascuno di questi elementi abbia un potere sulla vita di certi uomini, e che possa suscitare certezze.
Ma quelli cui non basta un certo tipo di Fede, quelli che hanno un bisogno più incisivo di conoscenza, saranno costretti a tenersi la sete, dovranno smarrirsi in un panteismo fumoso o sprofondare per sempre in un nichilismo senza speranze?

Cosa penseranno di fronte all’Insegnamento coloro che hanno una solida convinzione religiosa?
Credo che molti compiangano la nostra palese mancanza di Fede e biasimino il nostro orgoglio. Siccome ci rifiutiamo di considerare effetto della grazia divina quei movimenti interiori di cui entrambi riconosciamo la presenza quasi miracolosa, ma la cui comparsa per noi è legata a uno sforzo e a un insieme di legge che intendiamo studiare sul vivo di noi stessi, qualcuno dirà che parliamo mettendoci al posto di Dio, che ci sostituiamo orgogliosamente a lui, e che in questo stesso istante Dio è in noi e si esprime attraverso la nostra bocca. Per altri, questo Insegnamento non è altro che un assurdo panteismo o, al massimo, un pelagianismo[1] più volte condannato.
E così ci ritroviamo a camminare insieme su due vie che pretendono di arrivare alla stessa meta ma il cui parallelismo è solo apparente. A entrambi appartiene la medesima verità originaria, ma la divergenza comincia fin dai primi passi dei nostri rispettivi sentieri in una direzione che crediamo comune. Infatti, le parti di noi che accolgono quell’unica verità sono diverse, come diversa è la vibrazione che ognuna delle parti in cui risuono successivamente il richiamo verso ciò che è in Alto, e che entrambi avvertiamo ugualmente. Dietro le stesse parole, attraverso gli stessi messaggi, finiamo per toccare aspetti diversi della medesima verità, e non possiamo incontrarci che nei rarissimi punti in cui le curve delle nostre ricerche s’intersecano. 

La luce che talvolta penetra in noi, che ci illumina e ci riscalda … essa è riconoscenza, è puro Amore per Colui che, nella sua bontà infinita, riversa ininterrottamente nella nostra anima la Grazia di cui ci ha fatto dono … sempre attenta, essa ci nutre, trasforma la nostra visione delle cose e ci porta verso nuovi paralleli e irreversibili comprensioni. Allora diventa evidente l’irrealtà della nostra vita: peccato, o automatismo che ci rende schiavi? …
Due dimensioni dell’essere che la nostra visione limitata si ostina a confrontare aritmeticamente ma che, da un certo punto di vista, e a parte ogni giudizio di valore, stanno tra loro come lo zero e l’infinito.
Ma ciò non impedisce che alcuni credano e proclamino che noi siamo orgogliosi e senza amore.

Ho sempre avuto un certo disinteresse per tentativi di provare l’esistenza di Dio.

Ora, non sono riuscito a credere per molto tempo in un Dio la cui “bontà” e onnipotenza non abbiano altro fine che ricompensare quelli che rispettano un’etica certamente buona in se stessa, ma legata in passato a crudeli ingiustizie, e castigare quelli che la rifiutano o che sottopongono la loro vita a una disciplina diversa, un tantino meno rispettabile.
Una nuova visione del mondo, la scoperta che in me esiste un’altra vita, il progressivo accesso a una conoscenza vissuta di un universo invisibile, tutto ciò ha radicalmente modificato l’immagine di un possibile Dio che mi ero fatto in precedenza. Adesso accetto l’idea di una Potenza da cui tutto dipende, e capisco che per alcuni l’esistenza di Dio, rappresentando l’indispensabile speranza, sia un motivo per vivere in modo più giusto e un aiuto per sopportare i sacrifici.
D’altro canto, io ho sperimentato in me la “presenza” di una realtà nuova, nata da un lungo sforzo o da circostanze insolite, una presenza che può legarsi direttamente alle verità rivelate dalle tradizioni e che, confermando la giustezza dei loro insegnamenti, per chi la percepisce può rappresentare la prova dell’esistenza di Dio.
Qualunque sia il vero contenuto delle forme che l’idea di Dio ha rivestito nelle filosofie, nelle religioni o nelle tradizioni che ho potuto avvicinare, oggi vedo con chiarezza che cercare la “prova dell’esistenza di Dio”, come a lungo ho fatto anch’io, è un falso problema. Ciò che in me richiede una “prova” è soltanto l’apparato mentale assuefatto ad analoghi tentativi e avido di produrre quel sottile fremito che la mia testa finora ha chiamato “capire”. L’essere non ha bisogno di prove. La conoscenza interiore delle cose è di un livello tale che il numero e l’estensione non vi aggiungono niente.
Il fatto che il mondo interiore esista e che sia animato da una qualità che il mondo ordinario avverte e da cui si sente trasceso, è la prova che, al di là dei limiti concepiti dal mondo ordinario, esiste una realtà diversa cui non si applicano le leggi comunemente note.
Tra il principio chiamato Dio e l’essere che io sono si apre un abisso riempito dalle forze che mi hanno dato la vita.

Come risalire alla loro Sorgente a partire dal punto d’impatto che esse trovano dentro di me?
Come diventare colui che in tutta verità può dire “Signore, sia fatta la tua Volontà”?

Noi siamo talmente condizionati dalle influenze esterne che i colori del nostro sentimento e la forma dei nostri pensieri dipendono dalla disposizione delle forze circostanti. Se tale disposizione di altera anche solo di poco, la nostra visione, le nostre sensazioni e le nostre manifestazioni si modificano all’istante.
In virtù del principio di analogia di tutte le cose esistenti, è giusto pensare che l’umanità nel suo insieme subisca la stessa legge e che, come ha scritto Gurdjieff, se la Grande Natura deve adattarsi continuamente alle conseguenze della sempre maggiore meccanicità in cui vivono gli uomini[2], viceversa, ogni evoluzione accertata nell’altro senso deriva da un cambiamento nel flusso delle influenze emesse da sorgenti che per ora è tanto inutile sperare di identificare quanto vano immaginare.
Nessun uomo può essere separato dall’insieme dell’umanità, essendone una cellula vivente; e pur se ci interessa anzitutto la nostra vita personale, non possiamo evitare di sentirci coinvolti da tutta l’umanità. Certo, per poterne abbracciare la prospettiva non abbiamo sufficiente distanza, perché i tempi del suo sviluppo sono molto diversi dai nostri. E tuttavia alcuni periodi della storia ci hanno dimostrato che talvolta appaiono forze superiori capaci di modificarne il corso evolutivo.


Fonte: Battaglia per il presente di Henri Thomasson









[1] Dottrina eretica di Pelagio, affermatasi nel V secolo, che negava il peccato originale e sosteneva la possibilità di salvarsi con le solite opere, senza la necessità della grazia.
[2] G.I. Gurdjieff, Racconti di Belzebù a suo nipote, cit. 

mercoledì 13 settembre 2017

Battaglia per il presente – Henri Thomasson

VERSO UNA NUOVA STRUTTURA DELL’UOMO

Sento che il gusto e la qualità di vita cui questo Insegnamento conduce sono più importanti della vita stessa. Infatti mi sembra che la vita, al di là dello spazio e del tempo che la determinano, abbia senso solo quando si apre a un mondo di manifestazioni che trascendono le sue quattro dimensioni.
Il mondo della “coscienza” è accessibile solo all’uomo “risvegliato”, ossia a colui che, se non definitivamente almeno a periodi sempre più frequenti e sempre più lunghi, sfugge al livello in cui “la vita” è ridotta all’esercito delle funzioni fisiologiche, accompagnate da attività mentali e affettive sull’unico piano di esistenza che noi conosciamo.
Ma allora chi è addormentato dentro di me e si deve svegliare?
Finché non ho incontrato l’Insegnamento, avevo molto rispetto per la persona “intelligente” che credevo di essere.
Sorretto da un senso morale solidamente impiantato sulle influenze della famiglia, dotato di una certa capacità di giudizio soprattutto su argomenti estetici, favorito – talvolta egregiamente – da un buon livello d’intuizione e di comprensione, mi consolavo con molta disinvoltura della mediocrità dimostrata nelle mie prestazioni manuali e fisiche in genere.
La mia immagine mi sembrava mostrare un aspetto positivo, la “mia vita” era allietata dalle manifestazioni sviluppate dalle suddette qualità, e non mi sarebbe mai passato per la testa che tutto ciò potesse chiamarsi “dormire”.
Ma oggi tutto è diverso: mi è stata indicata una nuova struttura del mondo e dell’uomo, mi è stato proposto l’obiettivo di un’altra qualità d’essere, e io stesso ho potuto verificare personalmente la profondità del sonno ipnotico che mi sommerge. E proprio a un’altra qualità d’essere che io mi devo risvegliare. Come lo stato di coscienza ordinaria emerge d’un tratto dal sonno fisiologico occupandone il posto, così bisogna che un altro livello di pensiero e di coscienza emerga dal magma di pensieri associativi, sentimenti, moti e reazioni chiamati “io”, e che almeno ogni tanto vi si sostituisca.
Sento interiormente il bisogno di questo risveglio e, pur non avendo un’idea molto chiara di ciò che in me si debba svegliare, mi rendo conto che l’attenzione e l’osservazione mi animano in modo tale da farmi muovere il primo passo in tal senso.
Ma come posso svegliarmi realmente?
La prima condizione è quella di rendermi conto che sono addormentato e che di solito non me ne accorgo.

Io dormo perché m’identifico in tutto ciò che attira il mio interesse: la mia attenzione viene interamente assorbita dalla cosa che faccio, che dico, in presenza di cui mi trovo, che mi piace, che non mi piace o a cui penso; esisto solo in funzione della cosa, e per me questo essere, in quanto individuo che vive una propria specifica realtà, non provo il benché minimo interesse.
Per risvegliarmi ci vuole un’altra qualità d’attenzione, rivolta nel contempo verso l’esterno e verso di me … ma la posso avere solo per brevi istanti.
Quando mi osservo, l’immagine che ho di me stesso, l’esigenza imperiosa che ciascuno dei miei personaggi mostri un aspetto lusinghiero della mia persona, il terrore del giudizio altrui, la “considerazione interiore” da cui non riesco ad astenermi, dimostrano la mia dipendenza da tutto ciò che mi circonda e che svia l’attenzione attiva verso le secche in cui resta incagliato.
Svegliarmi significa rifiutare l’immaginazione, le fantasticherie, le nebbie che si alzano dalle parti meccaniche della mia persona per invadere la testa troppo pigra, desiderosa soltanto di evitare lo sforzo di pensare autonomamente: la mente infatti preferisce riprodurre le immagini già confezionate che le altre parti le forniscono in occasione di quegli avvenimenti, veri o immaginari ma in genere piacevoli, di cui esse amano pascersi.

Fonte:  Battaglia per il presente di Henri Thomasson