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martedì 1 ottobre 2013

Ho un corpo per guarirmi – Christian Flèche

Vedere la malattia altrimenti
Malattia: un’occasione in codice: quando sono costretto a rimanere tutto il giorno al sole mi abbronzo, e l’abbronzatura non è una malattia; è il sintomo di una reazione di adattamento.
Poi scende la notte, e sebbene io sia ormai lontano dal sole, l’abbronzatura rimane!
Possiamo dire che l’abbronzatura è la fase visibile dell’esperienza, mentre l’esposizione al sole è la fase invisibile. Il sole è l’azione, l’abbronzatura è la reazione. Analogamente, la malattia è una reazione (una fase visibile) che succede a un’azione (fase divenuta invisibile).

Il sintomo è una reazione di adattamento:
  • dell’individuo
  • del gruppo
  •  della specie
L’inconscio biologico ci governa fino a che diventiamo consapevoli dei suoi contenuti, e dunque riprendiamo in mano le redini della faccenda.
La leonessa metterà al mondo otto leoncini. I più veloci si accaparreranno le mammelle più ricche, quelle che contengono più latte: quelle superiori. Per sopravvivere bisogna essere veloci, afferrare rapidamente il cibo. Esiste un’impellenza inconscia.
Se qualche leoncino cade in un dirupo, la madre metterà in atto una soluzione biologica inconscia: l’inconscio biologico darà alle mammelle l’ordine di produrre più latte, per permettere ai leoncini sopravvissuti di ristabilirsi, avendo più cibo. E se per caso tutti i leoncini muoiono cadendo nel dirupo, o vengono uccisi da un nuovo maschio dominante che sopprime i piccoli del suo predecessore, la femmina vive immediatamente un altro conflitto biologico inconscio, che questa volta solleciterà le ovaie: avrà delle cisti, allo scopo di fabbricare più estrogeni per una nuova ovulazione, un nuovo slancio produttivo, mirato alla conservazione della specie. La leonessa andrà in cera del maschio, si accoppierà e avrà altri leoncini. Queste cisti non sono una malattia, ma sintomi di adattamento allo stress. I tumori alle mammelle della leonessa non sono una malattia, ma soluzioni di guarigione. Con questa visione del mondo, il sintomo ci appare come un adattamento biologico di sopravvivenza.

Se la tiroide produce più tiroxina per accelerare il metabolismo e far si che mi accaparri le mammelle superiori, questo avviene per la mia sopravvivenza personale. Se produco più latte, è per la sopravvivenza dei piccoli; se fabbrico più estrogeni e ovuli, è per la sopravvivenza della specie.

Qualsiasi sintomo è presente per curare ciò che lo ha provocato, l’obiettivo essendo in ogni caso quello di sottrarci allo stress, quale ne sia la forma.

All’inizio era la biologia … né psicologica, né simbolica: ma logica: la cosa fondamentale, qui, è capire bene che ciò che vive è prima di tutto iscritto in una realtà biologica.
L’ovulo e lo spermatozoo hanno ciascuno ventitré cromosomi, che si sommano quando si incontrano, sicché l’uovo ne possiede ventitré paia.
Nel corpo di una bambina sono presenti tutti gli ovociti, ossia gli ovuli, fin dalla nascita: ne ha 400.000, e proprio come i neuroni non si rinnoveranno mai.
L’uomo, invece, produce continuamente dei nuovi spermatozoi, che saranno efficaci solo dentro alle vie genitali femminili.
Durante la relazione sessuale, l’uomo eiacula circa 200 milioni di spermatozoi, che giungono nelle vie genitali femminili dove diventano attivi. Solo 400 di essi arriveranno nelle tube di Faloppio, gli altri rimarranno nelle retrovie a far da guerrieri nel caso in cui dovesse presentarsi l’eiaculato di un altro maschio. Avranno la funzione di neutralizzare chiunque venga dopo di loro. Esistono anche gli spermatozoi con funzione di intermediario, che servono da barriera sempre contro gli eventuali spermatozoi di un altro maschio. E poi ci sono quelli che tenteranno di fecondare l’ovulo.
Lo spermatozoo, che è maschile e attivo (l’attività tipica del polo maschile), quando arriva nel terzo superiore della tuba incontra un ovulo che è soprattutto passivo (il polo femminile è passivo). Un enzima specifico che si trova sulla testa dello spermatozoo dissolverà la prima delle tre membrane dell’ovulo, così da poterlo penetrare. A questo punto, l’ovulo stesso diventa attivo e gli spermatozoi rimasti fuori diventano inutili, passivi.

Fin dal primo istante della vita, l’aspetto femminile, quando è in conflitto, diventa attivo e il maschile diventa passivo. 
Non appena uno spermatozoo è penetrato nell’ovulo, questo produce una reazione chimica che impedisce l’accesso ad altri spermatozoi. Se non vi è fecondazione l’ovulo degenera in ventiquattro ore, ma se è fecondato la cellula-uovo, questa cellula unica, si divide in due nel giro di trenta ore. Poi nel giro di quaranta ore si divide di nuovo, in quattro, sedici … e il terzo giorno siano davanti a un insieme di cellule tutte simili, tutte identiche fra loro. Al quarto giorno esse giungono nell’utero nella cui mucosa si annideranno. Per certi versi si tratta di un corpo estraneo, di una specie di “parassita” che entra nel corpo, il quale però non deve respingerlo. Onde evitare il rigetto, hanno luogo alcuni fenomeni biologici: la vita futura è più importante di tutto il resto, e il corpo della madre deve passare attraverso una serie di fenomeni orientali all’accettazione biologica di una “altro da sé”. La madre si “decentralizza” per far luogo a qualcosa di molto diverso da lei: questo è davvero amore!

Non bisogna tuttavia perdere di vista il fatto che l’embriogenesi riassume la filogenesi (nascita della specie; modalità di formazione della specie; sviluppo delle specie nel corso dell’evoluzione). L’embriogenesi dura due mesi, mentre la filogenesi dura milioni di anni.
I primi due mesi della nostra vita sono i più lunghi della nostra esistenza: l’embrione (dal concepimento fino alla fine del secondo mese) riassume, nel suo sviluppo, l’evoluzione di tutta la vita. Passerà attraverso fasi in cui avrà una piccola coda, delle branchie come quelle dei pesci, dita palmate come quelle delle anatre, tre paia di reni come certi anfibi, o addirittura tutta una sfilza di mammelle, come certi mammiferi. Analogamente si differenziano i tessuti, che sono un abbozzo di tutti i grandi apparati (digestivo, renale …) poi regrediranno le mammelle e i reni superflui, le branchie e le dita palmate …

Ora suddivideremo questa evoluzione della vita in quattro stadi:
Primo stadio: nell’evoluzione delle forme di vita (filogenesi), il primo stadio corrisponde all’apparire e al mantenimento della vita (la sopravvivenza), assicurata da quattro funzioni principali:
  • nutrirsi (afferrare il cibo)
  •  respirare (afferrare del gas)
  • eliminare le scorie provocate dalla combustione del cibo e del gas
  • riprodursi, per garantire la continuazione della specie
Queste quattro funzioni sono presenti in ciascuna delle nostre cellule, e in ciascuno dei nostri comportamenti.
I tessuti creati dall’embrione che riassumono questo primo stadio dell’evoluzione sono legati a tutto ciò che è arcaico, vitale; essi soddisfano le quattro funzioni. Si trovano in una parte dell’apparto dirigente, con lo scopo di afferrare il “boccone” di cibo, ossia afferrare la vita sotto forma alimentare, e digerirlo; in una parte dell’apparto respiratorio per afferrare l’aria, ossia la vita sotto forma gassosa; nell’apparato renale, nella porzione inferiore dell’apparato digerente e in altri emuntori, per eliminare le scorie; nell’apparato genitale, che è organizzato per la riproduzione della specie. 

Secondo stadio: a livello della filogenesi corrisponde al passaggio di organismi viventi dall’ambiente liquido all’ambiente terrestre. La vita si è dunque trovata di fronte alla necessità di differenziarsi di più da un ambiente più denso, minerale, ed è diventata più vulnerabile alle aggressioni. Qualsiasi organismo è effettivamente composto perlopiù d’acqua (circa il 70% per il corpo umano).
Per capire quali tracce psichiche tale passaggio abbia lasciato in noi, bisogna tenere a mente la nozione del “dentro di sé”, la necessità di proteggersi, di mettersi al riparo da attacchi di ogni sorta. Avremo, qui, dei conflitti derivanti dal sentirsi aggrediti, “insozzati” e minacciati nella propria integrità.
In questo secondo stadio, l’embrione costituisce organi che hanno funzione protettiva, come il derma (la pelle profonda, che corrisponde a unghie e capelli; ma anche l’abbronzatura, destinata a proteggerci dal sole) e altre protezioni più specifiche: per esempio, la pleura che potrebbe i polmoni, il peritoneo che protegge l’intestino, il pericardio che protegge il cuore, le meningi che proteggono il cervello, la tromba di Eustachio che protegge l’orecchio medio …
La ghiandola del seno fa anch’essa parte di questo “foglietto embrionale”: si tratta di una ghiandola sudoripara che ha subito una modificazione per poter produrre latte.

Terzo stadio: a livello della filogenesi corrisponde alla comparsa della struttura. La vita ha superato il livello della sopravvivenza, e quello della protezione, dunque può cominciare ad esplorare il mondo. Per questo ha bisogno di costruirsi una struttura, un’individualità che dia un senso a tutto questo. Compaiono i muscoli e le ossa in base a un interrogativo: perché andare altrove, perché fare una data cosa? Ha valore? Se non ha né senso né valore, allora non esisterà la manifestazione fisica corrispondente.
Se devo nuotare avrò bisogno di pinne; se devo volare, spunteranno le ali. Ma se non ho bisogno di nuotare, lungo il corso delle generazioni le pinne finiranno per scomparire. Si tratta quindi di svalutazione biologica, non psicologica: ciò che non serve a niente, scompare.
A questo punto l’embrione produrrà i tessuti connettivi, le ghiandole corticosurrenali, le ossa, i muscoli, i legamenti, i tendini, i gangli, le vene, le arterie, il grasso.
Ed è in questo ambito che, negli esseri umani, si situa il sentimento della propria individualità e del proprio valore: qualcosa che ci rende distinti dall’ambiente, ma è contemporaneamente in continuità con il “tessuto” circostante. Le cose insomma non riguardano più i nostri confini, ma riguardano noi stessi, certe nostre preoccupazioni profonde che ci spingono a interrogarci: “che importanza hanno, queste preoccupazioni, nel mio spaio interiore?”. Se tale importanza è eccessiva, allora si corre il rischio di autosvalutarsi, di cancellarsi entro lo spazio della propria coscienza, un fenomeno che ci spingerà anche a capire che, in fin dei conti, nessuno e nulla che provenga dall’esterno possono invaderci davvero senza che noi stessi ne siamo complici, il che ci dà sempre un buon punto d’appoggio per ritrovare un sano equilibrio.
La nota dominante di questo stadio sarà imprimere la direzione, il senso, il movimento, per l’esplorazione del mondo, la struttura interna. I conflitti che toccheranno gli organismi responsabili della struttura interna verranno vissuti in termini di svalutazione (ossia di svilimento) e direzione.

Quarto stadio: a livello della filogenesi imprime all’organismo la traccia certa di un’evoluzione maggiormente volta all’esterno; si tratta della vita relazionale, e riguarda gli organi sensoriali, il sistema nervoso, e certi organi che in questa quarta fase vanno a completare e a elaborare quelli costituiti nelle tre fasi precedenti (esempio i bronchi, che serviranno per collegare gli alveoli polmonari con l’esterno, oppure gli ureteri che collegano i reni con l’esterno).
La conseguenza di questa evoluzione sul piano della psiche umana è che non siamo soltanto rinviati a noi stessi, ma più che altro “proiettati” da noi stessi in un ambiente sempre più vasto, dinamico, complesso. Diventa allora impossibile non prestare attenzione a ciò che accade fuori, non è più possibile non essere in relazione.
Questo quarto livello è quello in cui si imprimono i conflitti relazionali, così come conflitti molto più intellettuali ed elaborati.


Fonte: Ho un corpo per guarirmi – Christian Flèche

domenica 8 settembre 2013

Malattia linguaggio dell’anima – Rüdiger Dahlke

Possiamo dire che il corpo, come espressione del mondo materiale, è caratterizzato dalla frequenza vibratoria più bassa, il piano dell’anima da una frequenza media e quello spirituale dalla più alta. Per elevare al piano dell’anima un aspetto che si è stabilizzato al livello più basso di vibrazione come sintomo fisico, deve quindi essere immessa energia. Una quantità ancora maggiore di energia sarà poi necessaria per raggiungere il piano spirituale. 
Nel processo inverso dell’insorgere della malattia, questa energia è stata trattenuta. Quando veniamo confrontati con qualcosa con cui non vogliamo avere a che fare, tratteniamo energia consapevole e lasciamo cadere questo “qualcosa” nella psiche e quindi nel corpo. 
Ciò che rifiutiamo a livello di coscienza e crediamo di poter rimuovere, ignorandolo, approda in realtà, per usare una terminologia di Jung, nell’ombra. 
L’ombra quindi è costituita da tutto ciò di cui non vogliamo prendere atto e che non vogliamo accettare, ma che preferiamo ignorare. È perciò diametralmente opposta all’Io, che invece è formato da tutto ciò che accettiamo con piacere e con cui ci identifichiamo. 
Ma poiché l’ombra è una parte necessaria della nostra totalità, possiamo divenire sani, cioè interi, completi, solo integrandola. Un uomo completo, infatti, è costituito da Io e ombra. Insieme danno vita al Sé, cioè all’essere umano integrato.
L’accettazione e l’elaborazione degli elementi d’ombra che si sono incarnati nei sintomi è di conseguenza la via che conduce alla scoperta di se stessi. 
Le malattie sono manifestazioni dell’ombra che, affiorando dalle profondità dell’anima alla superficie del mondo fisico, diventano facilmente accessibili e rappresentano quindi una guida eccellente. 

Per trasferire i sintomi da un piano di bassa frequenza vibratoria ad uno ad alta frequenza, è necessario disporre di energia prodotta dal paziente stesso. 

Il polmone è l’organo che presiede allo scambio di gas: col suo aiuto inoltre riusciamo a comunicare, poiché il linguaggio si articola grazie all’espirazione. Noi tutti respiriamo la stessa aria e per questo grazie ai nostri polmoni siamo in contatto gli uni con gli altri. All’interno del corpo, questi due organi mettono in comunicazione la parte destra e quella sinistra, proprio come la respirazione collega consocio e inconscio. Nessuna altra funzione organica ha altrettante importanza a questi due livelli. I polmoni quindi ci pongono di fronte al problema vero e proprio, che è quello del contatto con la comunicazione. L’infiammazione, è un conflitto armato, una lotta che si svolge nel tessuto organico. Gli anticorpi combattono contro i virus, ci si arma, si muore, si vince. 
La polmonite incarna quindi un conflitto a livello di comunicazione. 
Occorre chiedersi: perché tutto questo avviene, proprio a me? Perché proprio ora? Che cosa mi impedisce? A che cosa mi spinge? 

L’omeopatia non combatte un sintomo con il suo opposto, ma si allea con esso e con alternative analoghe lo sostiene nel tentativo di introdurre nella vita del malato un principio mancante. 
Che la medicina in origine si basasse su questo concetto, è dimostrato dal suo emblema: il serpente attorcigliato al bastone di Esculapio. Esso è il simbolo del mondo polare degli opposti e per procedere si attorciglia attraverso i due poli della realtà. 
Esso possiede il veleno che può sia uccidere, che guarire. 
Come nell’antichità, quando i serpenti venivano deposti nel tempio di Esculapio, anche ai nostri tempi il compito specifico ed esclusivo del medico è ricavare dal veleno della polarità un dono che aiuti il paziente a crescere e guarire.
Paracelso sottolinea come, in ultima analisi, tutto ciò che è presente su questa terra è un veleno. La quantità di veleno contenuta in ciascun elemento ne determina la tossicità. 
La medicina omeopatica procede su questa strada fin dalle sue origini e queste sono le basi del suo pensiero, delle sue terapie e addirittura della realizzazione dei suoi medicinali. 
Da veleni come quello della vipera o dell’arsenico, l’omeopatia ricava farmaci attraverso succussioni o agitazioni, liberandoli gradualmente della loro materialità. 
I medici omeopatici sottolineano che il cosiddetto potenziamento di un farmaco non è una diluizione  bensì una dinamizzazione. In questo modo la sostanza o tintura originaria viene diluita ogni volta in rapporto 1:10 (diluizione decimale, D) o in rapporto 1:100 (diluzione centesimale, C) e a ogni passaggio la sostanza di base viene nuovamente agitata e immessa nel solvente. Con questo metodo le potenze superiori a D 23 non contengono più traccia della sostanza iniziale, ma soltanto l’informazione completa, svincolata dalla sua originaria tossicità. Tale informazione appartiene così al campo spirituale e ha superato il piano materiale a più bassa vibrazione. 
Ogni malattia è espressione di un’idea calata nel corpo, cioè di un modello che nella coscienza è assente. Qui si può intervenire con informazioni analoghe, farmacologiche oppure spirituali. 
Nel primo caso parliamo di omeopatia, mentre nel secondo di presa di coscienza del modello o del significato della malattia. L’informazione è per sua natura a un livello di vibrazione superiore rispetto al problema del corpo. Se si riesce a riportare la problematica a questo livello superiore, il veleno si trasforma in dono. La manifestazione dell’ombra nella sintomatologia determina la sua illuminazione e la malattia si trasforma in cammino di autoconoscenza. 

La chiave per entrare in una concezione del mondo meno causale e più sincronica è il simbolo. 
Questo termine “simbolo” deriva dalla parola greca symbellein che significa mettere insieme, unire. 
Per cogliere l’essenza nella sua totalità, nell’interpretazione della malattia è necessario collegare tutte le singole impressioni in un modello, ossia ogni piccolo simbolo deve essere integrato in un simbolo che li abbracci tutti.

Poiché non esiste alcuna cultura né antica né moderna che abbia dei rituali, possiamo dedurne che essi fanno parte integrante della vita umana. La loro efficacia, in proporzione alla loro diffusione, è stata poco studiata, soltanto nell’ultimo decennio, con la teoria di Sheldrake sui campi morfogenetici, è stato possibile tentare una spiegazione. Shaldrake scoprì ed ebbe conferma sperimentale, che tra i diversi esseri viventi esistono rapporti che sfuggono a qualsiasi spiegazione logica. Postulò allora i campi morfogenetici, che consentono questi collegamenti senza bisogno di materia e di trasmissione di informazioni. Parecchi esperimenti dimostrano che gli essere viventi si trovano inspiegabilmente collegati gli uni agli altri in un campo comune, proprio come accade alle particelle delle fisica atomica (Teorema di Bell). Esse vibrano contemporaneamente al medesimo livello vibratorio e si comportano quasi come se fossero un unico essere; possono essere paragonate ad un grande branco di pesci o ad un campo di grano mosso dal vento. In condizioni di controllo è possibile verificare che manca assolutamente il tempo di entrare in contatto secondo le consuete modalità. 
L’americano Conden riuscì a trovare qualcosa di paragonabile a questo comportamento anche negli esseri umano. Fece filmare persone che conversavano tra loro e dalle immagini proiettate al rallentatore emerse che i suoi interlocutori entravano in comunicazione tra loro nello stesso istante grazie a movimenti quasi impercettibili detti micromovimenti. Questo vibrare all’unisono è riscontrabile presso tutti gli esseri umani fatta eccezione per i bambini autistici. Nel campo della vita organica ci si avvicina a relazioni corrispondenti a quelle inspiegabili della fisica delle particelle elementari. 

Mentre continuiamo a credere che sono le più diverse cause a far muovere il mondo, la fisica moderna dimostra esattamente il contrario: in realtà regna un sincronismo inspiegabile e la causalità è soltanto un errore, anche se plausibile, nel nostro pensiero. 
I fenomeni che si presentano nei campi morfogenetici avvengono sincronicamente e non sono spiegabili da un punto di vista causale. I rituali sono la strada più diretta per creare tali campi e per entrare nella realtà. Se si considerano gli antichi riti di iniziazione e di guarigione, le nostre ipotesi si trasformano in certezza. Noi che non crediamo più nei riti e non siamo in grado di creare campi solidi, non riusciamo neppure a immaginare tali realtà. 

I rituali nella nostra società
Le antiche civiltà che conosciamo avevano senza eccezione un elemento comune: dai simboli creavano dei rituali per le fasi principali di passaggio della vita, ma anche per la vita quotidiana con le sue esigenze. 
Soltanto l’uomo moderno crede di poter fare a meno dei rituali, che considera superstizioni superate. 
Accanto alle poche cerimonie consapevolmente conservate, come battesimo, cresima, matrimonio, sepoltura, ce ne sono moltissime altre, di cui siamo più o meno consapevoli, che vivono proprio grazie al loro carattere rituale (controllare più volte la chiusura di qualcosa, contare i pali dal finestrino del treno …). 
Il nostro sistema giudiziario si basa sul fatto che i componenti della società credano nell’antico rituale dell’amministrazione della giustizia e lo accettino. Per quale altro motivo, se non per servire il rituale della giustizia, un uomo di legge adulto dovrebbe indossare una toga e una parrucca? 

Perché in segno di saluto offriamo la mano destra aperta e non invece il pugno sinistro? I rituali non sono logici, bensì simbolici, sono modelli in azione operanti, senza i quali la vita sociale sarebbe impossibile. 
Il problema, a questo punto, è che i rituali di cui non siamo consapevoli sono meno efficaci di quelli consapevoli e che nelle moderne società industriali predomina una forte tendenza all’inconscio. 
L’importanza dei rituali si sgancia sempre più dalla coscienza e precipita nell’ombra. 

Anche se non conosciamo più le radici, ma continuiamo a seguire le regole che ne derivano, rimaniamo al sicuro, protetti dal modello. Il pericolo consiste solo nel fatto che, insieme ala consapevolezza, si affievolisce anche la carica psichica. Se le regole sono seguite solo meccanicamente, senza consapevolezza, perdono di vigore. Se il loro significato non viene più riconosciuto, risultano prive di senso. Quando smettiamo di interpretarle, perdono necessariamente importanza. 

Mentre le culture arcaiche confidavano sulla forza iniziatica dei riti della pubertà, noi abbiamo tolto ulteriormente vigore ai loro relitti, comunione e cresima. Vissuti senza alcuna consapevolezza, essi degenerano in abitudini che non svolgono più la loro funzione. Credendo di risparmiare ai ragazzi gli orrori della più oscura superstizione, li abbiamo invece derubati di importanti possibilità di maturare. 
Poiché il passaggio non avviene senza riti, i giovani d’oggi devono cercare alternative. Le prime sigarette, fumate quasi ritualmente fra amici, costituiscono un tentativo in questo senso. 
Sapendo bene di non essere ancora adulti, osano anticipare uno dei privilegi del mondo dei grandi proibito a loro. 
Infrangendo questo tabù gli adolescenti sperano inconsciamente di ottenere l’ingresso nel nuovo modello. 
Proprio come nei riti arcaici della pubertà, il gesto è dominato dalla paura. 
Un altro rito compensativo ancora importante è l’esame della patente. Per poter guidare un’automobile, è necessario dimostrare di esserne all’altezza. Superato questo vero e proprio esame di maturità, iniziano sulla strada le prove di coraggio. 
Il problema di tali azioni compensatorie è che, per mancanza di consapevolezza e soprattutto per l’assenza di un aiuto esterno, in questo caso da parte degli adulti, i giovani non trovano sicurezza, diventano dipendenti da questi rituali sostitutivi e diventano accaniti fumatori e guidatori folli, ma non adulti. 

Nei tempi antichi, l’inizio della vita veniva celebrato con un rituale di nascita, mentre la fine dell’esistenza con un rituale di morte. 
Oggi abbiamo per lo più confinato entrambi nelle cliniche e, di conseguenza, in una sorta di nascondiglio, dove si svolgono rituali inconsci. I rituali della medicina possono aiutarci a capire il valore generale della ritualistica nei processi di guarigione e saranno perciò oggetto di un’analisi accurata. 

Rituali della medicina moderna
Nei tempi antichi, l'inizio della vita veniva celebrato con un rituale di nascita, mentre al fine dell'esistenza con un rituale di morte. Oggi abbiamo per lo più confinato nelle cliniche e, di conseguenza, in una sorta di nascondiglio, dove si svolgono rituali inconsci. I rituali della medicina possono aiutarci a capire il valore generale della ritualistica nei processi di guarigione e saranno perciò oggetto di un’analisi accurata.
Osservando attentamente, ci si rende conto che nelle cliniche moderne ha luogo una quantità impressionante di magie che farebbero onore a qualsiasi medico. Quando anticamente i pazienti si mettevano sotto la protezione di un guaritore, si affidavano di fatto all’altro mondo e, rimettendosi a Dio, ovvero alla sciamano suo rappresentante, rinunciavano ad autogestirsi. Anche oggi, a livelli ancor più alti, si verifica qualcosa di simile: il paziente moderno, una volta arrivato alla porta della clinica, rinuncia ad ogni diritto di autodeterminazione. La porta costituisce sempre un punto importante di ogni clinica, poiché sorveglia l’ingresso nell’altro mondo, svolgendo le funzioni che in passato erano proprie della porta del tempio: il mondo al di là della porta fa paura per la sua imperscrutabilità e per tutto ciò che si cela dietro a ogni malattia. I pazienti non di rado si sentono angosciati per ciò che dovranno affrontare e che riescono solo a intuire. Simili sensazioni erano probabilmente vissute anche da chi nell’antichità andava alla ricerca della guarigione in un tempio di Esculapio.
Non appena i pazienti, seguendo una procedura molto severa, vengono registrati, sono subito mandati a letto. Anche quando arrivano in piena salute, la sera prima di una visita o di un’operazione, essendo in ospedale devono necessariamente stare a letto. La testa, centrale di comando del corpo, non deve mantenersi in posizione eretta: deve in linea di principio restare bassa. Con ciò si acquisisce la certezza che i pazienti, almeno fisicamente, sono ai piedi dei medici e che i rapporti non avvengono allo stesso livello. Ora non c’è più molto da discutere e meno ancora da decidere. Nella forma e nel contenuto i malati vengono trasformati in tempi brevissimi in pazienti (=lat. colui che ha pazienza). Che vengano messi a letto come bambini da un’infermiera, dopo essersi spogliati su suo ordine, rientra nel gioco: essi non decidono più niente da soli, che venga loro
detto perfino quando andare a letto e quando alzarsi. Iniziano a scendere la scala che li porta a livelli infantili. nella maggior parte delle cliniche, ci si ritrova in parecchi nella stessa stanza come quando si era piccoli. Ne consegue che è l'infermiera a decidere quando si deve dominare  per il bene dei "cari bambini" naturalmente... luci spente e occhi chiusi! La mattina seguente, dopo aver eseguito l'ordine di lavarsi, viene distribuita la colazione, ovviamente non secondo i gusti dei pazienti. Spetta di nuovo ad altri decidere ciò che è meglio per loro, e se non mangiano tutto, ricevono benevoli rimproveri con relative occhiatacce. Alcune infermiere aggravano ancora di più questa situazione, utilizzando inconsapevolmente una specie di linguaggio per bambini, a fin di bene naturalmente, ma che contribuisce ad assegnare un ruolo sempre più inesorabile.
In ospedale quindi viene celebrato un rituale in grande stile allo scopo di trasformare le persone in pazienti e i pazienti in bambini. Tanti piccoli dettagli favoriscono questo processo: se i pazienti vogliono passeggiare, lo devono fare in pigiama in camicia da notte o in accappatoio, certamente non come farebbero adulti normali. Del resto, tanto sano non possono essere se durante la visita devono rimanere a letto, aspettando pazientemente che i loro semidei pronuncino la loro sentenza. Sono proprio loro, infatti, a decidere ampiamente della sorte dei pazienti, ai quali vengono comunicati soltanto i risultati finali: mentre i medici si consultano, si servono infatti di un linguaggio misterioso difficilmente comprensibile ai più, confrontano curve, grafici e misurazioni, che hanno l'apparenza di impenetrabili arcani.
La visita, cioè il controllo medico al capezzale del malato, si svolge sempre secondo un rigido rituale: in genere viene celebrato un saggio di perfetta gerarchia. Gerarchia significa letteralmente in greco "dominio degli dei". E quindi è una logica conseguenza che il capo, posto in cima a questa gerarchia, domini come il sacerdote del sole e ripartisca i poteri tra coloro che fanno parte del suo seguito. Le libertà, che la fanteria delle infermiere concede, vengono gradualmente escluse: lui dà l'impressione di sapere tutto e non ha bisogno di fornire alcuna motivazione.
Nella mente dei pazienti può affiorare il ricordo di un padre severo, di un autoritario capo di famiglia. Rispetto e stima vengono imposti se non si instaurano spontaneamente. I tentativi di quest'epoca democratica di eliminare le gerarchie incontrano proprio in medicina ostacoli profondamente radicati.
L'intero rituale di regressione, progettato con cura, ha per i pazienti anche lati piacevoli: ad esempio, vengono portati in giro quasi sempre col proprio letto, perfino quando potrebbero camminare. l'importante è che non si affatichino e che non pensino troppo. La pace del corpo, dell'anima e dello spirito viene raccomandata caldamente. Così un'altra conseguenza è che non i pazienti, bensì i dottori, decidano quando i primi possano ricominciare a muoversi con le proprie gambe e tornare a casa.
Se i pazienti non capiscono i segni e non si comportano secondo i dettami dei medici, vengono rimproverati e rimessi al loro posto attraverso sanzioni. "Quello del 17 è un tipo difficile" annotano le infermiere e lo comunicano eventualmente alle alte sfere. Se si tratta di un paziente veramente difficile, il direttore stesso, utilizzando preferibilmente il plurale maiestatis, si rivolge a lui dicendo: "Che problema abbiamo oggi ...?".
Naturalmente la medicina ha inventato molte motivazioni per giustificare tali disposizioni, senza bisogno di ricorrere alla parola rituale. Ma uno sguardo razionale riesce sempre a smascherare i fatti. Si dice che i dottori di diverse nazionalità, per potere comunicare tra loro, dovrebbero parlare latino: in realtà, in vent'anni di studio e di pratica non mi è mai capitato di incontrare un medico che parlasse tale lingua con un collega e che all'occorrenza fosse in grado di farlo. Se fosse tentato di farlo, sarebbe senz'altro preso per pazzo. In ogni caso, c'è sempre abbastanza latino tra i medici: le parole decisive vengono espresse in codice davanti ai pazienti, ai quali, come ai bambini, non si vuole far conoscere tutta la verità.
Lo stesso accade con il bianco "sterile" del personale della clinica, per il quale non fa alcuna eccezione. Motivi igienici per scegliere il bianco, o il giallo, non ne esistono. Perché allora in tutto il mondo è stato scelto il bianco? Forse per il fatto che il Papa veste di bianco, come la maggior parte dei guro? Forse anche i semidei hanno bisogno di abiti rituali per le loro cerimonie segrete, anche se non vogliamo ammetterlo? Oppure il bianco è inseparabile dall'esperienza medica, perché unisce in sé tutti i colori ed è quindi il colore della totalità e della perfezione?
Molti elementi, tra cui la magia relativa all'igiene, fanno pensare a motivazioni più profonde. All'origine il bianco era ostacolato dalla medicina, però nel tempo l'igiene è riuscita ad ottenere un posto fondamentale tra i nuovi riti sostitutivi. Oggi il bianco viene difeso energicamente e talvolta in modo irrazionale, proprio come in origine era combattuto. Queste cariche emotive così forti sono in genere un segnale nascosto dietro a una situazione. In questo caso, le norme igieniche emergono dal profondo insieme delle cerimonie di purificazione. Una purificazione densa di significato è quella che si può osservare nei chirurghi nella fase preparatoria all'operazione. Si lavano le mani per diversi minuti sotto acqua calda corrente, servendosi di un sapone forte e di una spazzola dura. I tempi di questo lavaggio sono prestabiliti e controllati scrupolosamente con orologi di precisione.
Tuttavia al termine di quest’ operazione le mani sono ancora così "sporche" che alla fine vengono nuovamente irrorate a lungo con dell'alcol ad alta gradazione. Infine restano ancora molti dubbi sulla loro reale pulizia e vengono quindi nascoste sotto guanti di gomma sterilizzati. Nei riti magici erano consapevolmente previste delle cerimonie di purificazione per le mani, però non altrettanto minuziose.

Le molte pratiche minori di purificazione che caratterizzano la vita quotidiana di una clinica possono essere considerate riti, poiché in realtà non producono nulla dal punto di vista dell'igiene il medico disinfetta ogni cosa, perfino la parte di cute su cui si fa l'iniezione, quando è stato ormai dimostrato che tale gesto non ha alcun valore igienico. I medici, però, con una buona ragione, non vogliono abbandonare questo rito a cui sono legati. Cercano piuttosto le più strane giustificazioni per preparare la parte da trattare alla maniera degli antichi sciamani; operano prima con gesti privi di reale efficacia ma validi sul piano della magia. L'alcol svolge in questo contesto la stessa funzione dell'acqua santa quando si entra in chiesa. Da questo punto di vista igienico, nessuno dei due purifica ma tuttavia purificano e consacrano in senso più profondo.  I dottori rimangono a buon diritto ancorati al loro rituale, atteso altrettanto giustamente dal paziente, poiché tali cerimonie, tanto in medicina quanto in altri campi, sono realmente necessarie. Talvolta le motivazioni sono veramente strane, per il motivo che difendono gli antichi rituali dagli eventuali riformatori. Scopo e motivazione rimangono quindi intatti.
Anche la normale prassi medica cela una quantità di rituali inconsci. Dopo aver legittimato la loro posizione a personale subalterno attraverso certificati medici e dopo una lunga ed estenuante attesa, i pazienti diventano degni del loro nome. In un'atmosfera di tensione, insieme ad altri malati, bramano il momento decisivo in cui verranno finalmente dimessi. Lo attendono e lo temono proprio come mille anni fa i pazienti aspettavano l'incontro con Esculapio, il dio della guarigione. Ammessi infine ai misteri del medico, questi si rivelano tutt'altro che chiari. Il senso e lo scopo delle apparecchiature utilizzate su di loro restano per i pazienti ancora oscuri. Tuttavia, si sentono rassicurati nel vedere e nel verificare che il loro dottore è pronto ad affrontare qualsiasi evenienza, anche se tali strumentazioni, non sempre sono messe a punto, non servono allo scopo. Naturalmente, il medico ha sempre poco tempo a disposizione: come potrebbe, del resto, essere altrimenti vista l'importanza del suo incarico! Per i malati l'idea di fare attendere anche per un solo minuto lui che in genere fa pazientare per almeno un'ora, è impensabile. Alla fine, per un decisivo e brevissimo istante, il medico rivolge la parola ai "pazienti!": prima essi sarebbero stati definiti verbalmente malati, oggi, invece, lo sono solo in base a una documentazione scritta.
Contemporaneamente viene pronunciato il giudizio finale sulla malattia: vengono fissati scadenze e farmaci ai quali dovrà cedere. Con la prescrizione il medico, forte della sua autorità, stabilisce e decreta una proroga per il paziente e il suo sintomo. Una volta trascorso il periodo stabilito, il paziente è automaticamente guarito. Questa minaccia era stata prima attestata con un certificato di inabilità al lavoro, ora invece con un secondo documento il paziente viene rapidamente dimesso. Ma tale documentazione continua a rimanere oscura per due motivi diversi: Da un lato, l'ortografia è illeggibile, dall'altro le parole e i segni appartengono ad un altro mondo. Ma il farmacista, ugualmente parato di bianco e quindi appartenente alla stessa categoria[1] di iniziati, decifra la ricetta e porge al paziente le salvifiche gocce o compresse. Il modello è antico ed efficace.
I dottori hanno collocato la loro rispettata posizione al centro di queste procedure magiche, in modo che sia immediatamente evidente quanto essa sia importante e decisiva. Anche se in realtà solo Dio può decidere della vita e della morte, una categoria di persone cerca di operare nello stesso modo. Se si osservano tutti i gesti esteriori di uno sciamano, ecco apparire un medico. Anche la divisa, come a entrambi e va al di là del colore. Le differenze gerarchiche sono indicate perfino sui camici: oggi le infermiere possono fare a meno delle loro cuffiette, ma ahimè, bisogna ricordare che un tempo indossavano un mantello dal colletto rigido, il che dava loro la possibilità di arrogarsi uno dei privilegi del medico. I veri sciamani rinuncerebbero con riluttanza ai loro amuleti carichi di forza, mentre, dal canto loro, i dottori portano invece stetoscopi che, all'occasione, passano sul corpo o sul cuore del paziente. Gli sciamani si servono di continuo di una lingua incomprensibile per i non iniziati ed eseguono gesti e rituali il cui significato più profondo è noto solo a loro, ma i nostri medici moderni non sono da meno. La dignità dei guaritori si esprime spesso in atteggiamenti che tengono ben poco conto delle cose del mondo. Possono permettersi di lasciar attendere i pazienti e di curarli in base alla gerarchia, dall'alto in basso. In virtù della loro posizione, non vogliono avere niente a che fare con problemi materiali e lasciano che siano altri a raccogliere le offerte. Anche i dottori di oggi sfruttano al massimo questa possibilità, in primo luogo con i pazienti e le loro mutue, in secondo luogo presso le disponibili case farmaceutiche. E, proprio come tanto tempo fa, hanno dei collaboratori che svolgono al loro posto io compiti meno dignitosi[2]. In conclusione anche i guaritori sono circondanti da segni che esigono rispetto, impressionano i non iniziati, o addirittura, incutono paura. In questo contesto colpisce il rapporto, sviluppatosi nel corso della storia, tra i dottori e il serpente compagno di Esculapio che si attorciglia pericolosamente attorno al bastone che porta il suo stesso nome. Esculapio, il primo medico, aveva potere sul serpente e il suo regno, la polarità. Il vero guaritore è in grado di rendere visibile la propria irradiazione, creando una sorta di aureola attorno al capo. I medici moderni non hanno gli stessi poteri e cercano di compensare in qualche modo questa carenza. Colpisce, però, il fatto che il loro prototipo sia oggi rappresentato dallo spettrografo dell'otorinolaringoiatra che, quanto meno, tenta di imitare la corona di luce e, posto sulla fronte, richiama alla memoria ancora un altro simbolo del sole: lo specchio che, grazie ai suoi raggi luminosi, attira su di sé l'attenzione dei non iniziati.

Leggendo la nostra ironica descrizione si può avere l'impressione che ci si trovi di fronte a relitti bisognosi di restauro del potere dei medici o della loro megalomania. Questa valutazione tiene conto, però, solo di una delle facce della medaglia. Osservando con attenzione anche l'altra, si scopre il modello centrale ed efficace, oggi come ieri  di una medicina che non sa neppure perché funzioni.
La malattia è sempre una regressione e porta automaticamente l'uomo ad assumere l'atteggiamento di chi è stato consegnato alla giustizia o di chi si trova in una condizione di assoluta impotenza. La posizione orizzontale fa capire una cosa: non è la vita che giace ai nostri piedi, ma siamo noi che giaciamo ai piedi della vita. Questo rende ogni forma di malattia dignitosa e onesta. L'atteggiamento di umiltà, unito alla necessità di raccoglimento e all'obbligo di obbedire alle parole "Sia fatta la Tua volontà", ha effetti salutari. La malattia permette, allora di prendersi una vacanza dall'estenuante comportamento umano e, soprattutto, dal "sia fatta la mia volontà". Più consapevolmente si accetta questa condizione e si trova l'umiltà necessaria ad affrontarla, più efficace risulterà il rito di guarigione.
Da questo punto di vista i tentativi di dare al paziente uguaglianza di diritti, pur pensati in buona fede, risultano sempre controproduttivi  rispetto al vero e proprio modello di guarigione descritto. Ciò è particolarmente evidente nei reparti ospedalieri privati, dove il trattamento di prima classe non determina affatto guarigioni migliori: non si tratta, perciò di immettere il paziente nella situazione determinata dalla sua malattia o di far valere i suoi diritti: quello di cui ha bisogno è l'acquisizione della consapevolezza della propria situazione di impotenza. Anche gli inconsapevoli riti moderni, che hanno luogo negli ospedali, possono soddisfare tale esigenza.
Veramente pericolosi per le opportunità di guarigione non sono l'organizzazione gerarchica della clinica o i rituali che vi vengono celebrati, bensì le onnipotenti fantasie dei medici ciechi alla realtà, che si illudono di avere potere su tutto.
In realtà proprio questi dottori, nonostante il contributo che hanno dato alla costruzione della torre della scienza medica, non hanno mai incontrato il vertice gerarchico, l'elemento sacrale. Anche se oggi costruiscono con l'avorio, condividono il destino dei loro laboriosi progenitori quando eressero la torre di Babele.
L'effetto placebo, considerato con sospetto dai medici che pensano in modo soltanto scientifico, e, più che mai, la "droga-medico" sono parti essenziali del rituale moderno della medicina[3].
Tanto più i pazienti sono messi nella condizione di riconoscere, almeno simbolicamente, la sovranità incontrastata del sacro all'interno della gerarchia, tanto più grandi diventano le loro possibilità di guarigione. il dottore è, in questo caso, colui sul quale è proiettata la nostalgia di una guida che si accompagni e ci aiuti a raggiungere un luogo più alto, se possibile altissimo. Una medicina, che lascia fuori Dio, cioè il principio dell'unità, avrà sempre bisogno di divinità sostitutive, oppure la guarigione le sfuggirà sempre dalle mani. Il semidio vestito di bianco è solo una caricatura, ma è sicuramente meglio di nessun Dio. Neppure la medicina scientifica, che cerca di condurre la sua attività in modo oggettivo e esente da influenzamenti psichici, può rinunciare a un Dio, che chiama semplicemente "scienza". Per i fedeli della scienza, anche il credere in un orribile e onnipotente medicina rappresenta una possibilità di guarigione. Dallo scetticismo che caratterizza la religione della scienza, non deriva però alcuna reale possibilità di guarigione.



[1] La ricetta ha di fatto lo stesso valore di un documento. Se una persona non autorizzata osasse apportare in essa delle modifiche, si renderebbe giuridicamente perseguibile per falso in atto pubblico.
[2] I dottori trovano per lo più umiliante o addirittura logorante, rispetto al loro specifico lavoro, dover compilare i moduli della mutua per i loro pazienti.
[3] Con effetto placebo si intende ogni importante effetto farmacologico non dovuto al prodotto somministrato, ma alla suggestione e che quindi è connesso col rituale della somministrazione del farmaco, presieduto dal medico. Anche nei ritrovati chimici più potenti è stata riscontrata la presenza di questo effetto. Perfino le droghe come la morfina possono talvolte essere sostituite con prodotti che si sono dimostrati in grado di produrre un effetto placebo adeguato.


Rituali della medicina antica
La medicina antica ci rivela la forza dei campi energetici creati dai rituali. Gli ospedali dell’antichità erano templi del dio Esculapio. I malati e coloro che avevano bisogno di assistenza affrontavano lunghi viaggi per raggiungerli. Al loro arrivo, venivano introdotti dai servitori del tempio a riti preparatori di armonizzazione e purificazione. La medicina così come la concepiamo oggi non esisteva. Non venivano eseguite operazioni, né tanto meno somministrati medicinali secondo le concezioni odierne. Tra le scienze oggi conosciute, soltanto l’igiene e la dietetica avevano un ruolo, che peraltro era molto più ampio di quello loro attribuito ai nostri giorni.
Al centro di questa medicina c’era il tempio stesso di Esculapio, inteso come spazio. I tanti rituali creavano il campo in cui poteva avvenire la guarigione. Il paziente per intere settimane veniva preparato a vivere nella notte decisiva dei suo soggiorno il sonno del tempio – la cosiddetta incubazione. In quella notte particolare, si coricava in quel punto specifico del tempio, in un’atmosfera appositamente preparata con luci ed essenze profumate e alla fine si addormentava. L’avvenimento decisivo accadeva nel sonno, secondo il detto: “Ai suoi il Signore dona nel sonno”. Il paziente sognava la soluzione del suo problema: o la vedeva concretamente in immagini davanti ai suoi occhi, oppure gli appariva Esculapio, che gli spiegava dove portava la sua strada.
Per le nostre concezioni moderne questa procedura sembra ingenua, però dovremmo prendere atto del fatto che questa medicina aveva successo e produceva guarigioni. In base alla moderna psicologia, potremmo dire che veniva creato uno spazio all’interno del quale la soluzione poteva emergere dall’inconscio.
Se si intende la guarigione in senso più profondo e non solo in quello di riparazione, questa medicina non ha affatto bisogno di nascondersi al confronto di quella moderna: al contrario, conosceva processi che noi stiamo riscoprendo soltanto adesso. Nella misura in cui impareremo a prendere coscienza dei campi che ci dominano e a lavorare con essi, ricominceremo ad avere rispetto per la medicina antica, che si basava sulla conoscenza del rituale.
Molte cose ci fanno pensare che i campi morfogenetici costituiscono le vere e proprie strutture in cui si realizzano crescite e guarigioni.
È possibile così spiegare armonicamente anche la grande crescita, l’evoluzione: i campi creano la cornice all’interno della quale si prepara tale evoluzione. Ad una cornice specifica si adattano però soltanto immagini specifiche, e così nell’evoluzione non tutto è possibile, bensì soltanto ciò che si adatta alla cornice. Perciò anche la guarigione nel senso di completo ristabilimento non è raggiungibile in ogni caso, ma solo se rientra nella natura del soggetto, se cioè è prevista nel suo modello. La guarigione, intesa come redenzione del proprio modello, è invece sempre possibile.

Malattia e modello
Le malattie costituiscono dei campi: ad ogni sintomo non corrisponde soltanto una forma corporea, bensì anche un relativo campo costituito da modelli di comportamento e di strategie di vita (e di sopravvivenza).
Nella malattia una certa quantità di energia si trasforma in una struttura fissa, che si radica profondamente nell’inconscio come modello.
Soltanto l’aspetto formale emerge fino a divenire visibile, proprio come la punta di un iceberg.
Specie per i tossicodipendenti è importante capire che questo modello non può essere cambiato e che l’unica possibilità consiste nel viverlo in altra forma.
Il campo che crea la malattia si nutre del modello celato nel profondo.
Ad esempio un problema di aggressività stabilisce il modello. A livello superficiale può assumere anche aspetti visibilmente molto diversi, come allergie, pressione alta, calcoli biliari o mangiarsi le unghie, ma tali manifestazioni descrivono soltanto il livello corporeo superficiale, con cui lo stesso modello può esprimersi.
Frequenti accessi di rabbia, comportamento violenti, caratterizzato dall’impulsività e anche approcci offensivi ai temi dell’ombra, sono esempi di tale possibilità.
Anche sul piano del pensiero il modello potrebbe assumere diverse configurazioni: fantasie aggressive di tipo sessuale ne costituiscono un esempio possibile, come anche il pensiero radicale, che con le sue radici è rivolto a un settore fondamentalmente oscuro. A livello psicologico i sentimenti di auto-aggressione rappresenterebbero una variante, o anche fantasie auto-distruttive e depressioni, oppure una vita emozionalmente e sentimentalmente radicale.

Il mondo della psiche non si comporta né in modo logico né in modo cronologico – qui regnano sincronicità e analogia, come ci mostrano i sogni che facciamo ogni notte.

La vera guarigione richiede un’alternativa nell’ambito del modello precostituito. Limitarsi a combattere un sintomo col suo opposto procura un sollievo di breve durata, però a lungo termine ingigantisce il problema. Involontariamente questa battaglia rinvigorisce ciò che si combatte, cosicché col tempo devono essere erette mura difensive sempre più resistenti.
Chi combatte un esantema con il cortisone, avrà ben presto una pelle levigata, però spinge le anergie corrispondenti in profondità, in genere fino ai polmoni, il nostro secondo organo di contatto dopo la pelle. Più si combatte un’eruzione a livello cutaneo, più il potenziale della malattia aumenta in profondità e addirittura aumenta insieme alle misure difensive. In linea di principio accade la stessa cosa quando si cerca di combattere la tristezza con le parole allegre. Le cosiddette affermazioni positive restano infatti a livello superficiale e il potenziale depressivo si sviluppa. Dopo un breve miglioramento che viene erroneamente interpretato come guarigione, il tema rimosso affiora rapidamente altrove.

I rituali costituiscono la struttura di base della vita sociale umana, essendone, in modo consapevole o inconsapevole, i modelli-ombra.
Le malattie sono i rituali d’ombra che possono mantenere l’uomo in equilibrio ed essere sostituiti attraverso rituali consapevole dello stesso principio.

Le quattro “cause” possono contribuire a decifrare il rituale al quale il sintomo ci invita. Occorre inoltre individuare il campo in cui l’interessato vive. Le domande di base sarebbero:
  1. (causa efficiente: che agisce dal passato) Da dove viene il sintomo?
  2. (causa finale: tensione allo scopo) Su quale base materiale si muove la malattia e che cosa ci rivela l’organo colpito?
  3. (causa formale: modello) In quale ambito si estende il sintomo? Quali sono le sue regole del gioco?
  4. (causa materiale: base materiale) A cosa tende il sintomo? Dove vuole portare il soggetto?

Domande sul rituale della malattia e sulla sua cornice:
  • In che modo proprio io ho determinato l’insorgere di questo problema?
  • Perché succede proprio adesso? Nei processi cronici: quando sono stato colpito per la prima volta? Quando in modo particolarmente intenso?
  • Perché questo disturbo colpisce proprio me?
  • Quale modello ricorrente della mia vita si rivela nel rituale della malattia?

Fonte: Malattia linguaggio dell'anima - Rüdiger Dahlke





giovedì 1 agosto 2013

La Via della Volontà Solare – Massimo Scaligero

URGENZA DELLA RICERCA SOVRASENSIBILE
Mondo antico e indagine moderna
La natura dell’uomo moderno è “priva di spirito”, per il fatto che lo spirito si è incentrato nel processo di autocoscienza (e solo questa, interiorizzandosi, potrebbe far risorgere il sovrasensibile dalla natura: chi conosca l’opera scientifica di Goethe si trova dinnanzi alle premesse per un’esperienza del genere).
La situazione del mondo antico era l’opposto: la natura era permeata di spirito: non era natura. L’uomo accoglieva le correnti sovrasensibili nelle corporeità, nella razza, nel sangue: non gli era necessaria l’autocoscienza, poiché poteva riferire se stesso al divino che vedeva sorgere dal sangue.
Si può dire che il Divino, fluendo nel suo essere fisico, suscitasse in lui visioni o ispirazioni; ma si trattava di un organismo non ancora densificato sino alla formazione di un compiuto sistema neuro-sensorio, epperò tramite di forze che non poterono più fluire direttamente in lui quando egli cessò di trarre la coscienza di sé da un centro interiore (cuore) per averla da un supporto fisico (cervello).
Se la costituzione interiore dell’uomo moderno si fonda sulla inversione della polarità originaria uomo-cosmo, individualità-natura, onde la natura comincia ad essere veduta come mondo esteriore – inversione che ha inizio all’epoca del Buddha, di Lao-tze e di Confucio in Oriente, del filosofare presocratico in Occidente – è comprensibile come l’elemento eterno che prima traspariva attraverso la natura, ora si esprima in un’attività interiore che in un certo modo di oppone ad essa.
In tal senso, secondo l’espressione di un pensatore occidentale, bensì la “falsa memoria” di esso, dovuta a quel rovesciamento di visione onde il mondo antico non può più essere conosciuto per quel che effettivamente era, e la propria vita trascorsa viene ricordata come la serie delle reazioni soggettive ad eventi non conosciuti nella loro sostanza: falsa memoria, dunque, che solo può rivelarsi con un suo delle forze della memoria rispondente alla scaturigine delle forze stesse. 

Chi sia interiormente fondato, non può cadere nella illusione di ritrovare nel sub-conscio l’elemento originario, ma sa di ritrovarvi solo “falsa memoria”, quella che insiste come abitudine atavica, inclinazione, istinto, persino come radice delle malattie organiche: un mondo che non è l’Io, non l’”essere centrale”, ma la sua vecchia spoglia, in cui ora tende a manifestarsi tutto ciò che come corrente cosmica inferiore lo avversa e lo irretisce. È la natura, l’antica “scorza” dello spirituale, che, non riconosciuta, tende a usare come veicolo lo spirituale oggi appena risorgente nella forma dell’autocoscienza: d’onde gli equivoci della scienza e della cultura moderne, l’equivoco di una psicologia che nei residuo degenerescenti di una coscienza mitogena crede ritrovare contenuti attuali dell’io, mentre dovrebbe qui riconoscere una “zona” manovrata da forze che, portate ad insistere nel loro antico movimento, agiscono contro la nascente autocoscienza, ossia contro la possibilità positiva della inversione della polarità umano-cosmica accennata: forze perciò ostacolartici dell’uomo, che tendono ad annientare l’io, sottraendogli vitalità e usandola contro esso.
Si tratta di contenuti che dovrebbero venir sollecitati mediante una identificazione astratta e dialettica ma permanere nell’inconscio, in vista di una loro estinzione, necessaria al processo superiore della coscienza: si estinguono soltanto se possono essere oggetto di un conoscere soprasensibile, capaci di contemplarli per quello che effettivamente sono.
Ma è chiaro che nessun astratto pensiero, nessuna attività semplicemente razionale, ha il potere di vedere e risolvere l’identificazione sottile della vita psichica con essi: identificazione che perciò può acquisire persino giustificazione scientifica e divenire moderna psicologia.

Superstizione contemporanea
La sostanza mitica è essenzialmente diversa: occorre distinguere il mito in quanto veste imaginativa di percezioni extra-sensibili (mondo antico), dal mito che è proiezione spirituale di percezione sensibili, ossia la loro idealizzazione e trasposizione imaginativa (mondo moderno), secondo un “ideale” che non può essere attinto se non dall’esperienza sensibile. L’uomo moderno ritiene reale soltanto ciò che può percepire con i sensi fisici: per lui ogni rappresentazione mitica non è che la dignificazione di quel che percepisce. E ciò che percepisce per ora non è altro che il “cadavere dell’antica natura”: non è quel che l’uomo antico percepiva come natura vivente.

L’illusoria “metafisica”
Normalmente, all’occidentale, la sua capacità conoscitiva appare soggettiva, astratta, priva di forza vitale: per esso è il mondo esanime delle argomentazioni, delle ragioni, fuori qualcosa di più, ossia vitalità e concretezza, non suppone che l’attività interiore con cui pensa fluisce dalla sorgente stessa della vitalità e della concretezza, e si rivolge a un’altra direzione. Di solito cerca dottrine orientali che giustifichino questo suo rifuggire l’astrattezza e al tempo stesso gli diano modo di portarsi oltre l’astratto, mediante un presunto superamento del “mentale” (un mondo di dottrine orientali, perciò, che sarà da lui veduto secondo insufficienza interiore rispetto alla sua propria natura di occidentale) o si consola con una filosofia, di tipo esistenzialistico, o con una psicoanalisi, o una psicologia analitica. Nell’uno o nell’altro caso egli evita l’autentico sperimentare interiore che è penetrare la sostanza della vita mediante un pensare capace di non presupporre da sé la serie degli oggetti e perciò di afferrare se stesso: senza avvertirlo, si appaga di associazioni di “pensati” unificate in sistemi, rimanendo sostanzialmente alla visione di una molteplicità priva di unità essenziale e a un mondo di “sensazioni” piò o meno nobilitante: che tuttavia non riconosce come tali e che per lui, anche se non se ne avvede, possono essere qualcosa unicamente in quanto le assume  in pensieri o come contenuti di idee, ossia per quell’elemento irriconosciuto, in sostituzione del quale si illude di trovare altre vie.
In nessuno di questi casi l’occidentale segue veramente la sua vocazione. Il macchinismo, l’agnostico razionalismo, l’attivismo proprio a una vita esclusivamente utilitaria, spoglia di autentici sentimenti, costituiscono un mondo che non può essere rettificato o esorcizzato mediamente una “conoscenza” la cui stessa scelta è in partenza legata a un conoscere formatosi in esso: nel mondo che si pretende superare. Questo arido razionalismo nato dall’occidentale, come riflessità del pensiero, chiede di essere risolto appunto nella sede del suo manifestarsi, mediante la conversione di un processo che riguarda unicamente lui in quanto moderno. Si tratta in definitiva di forze che vanno ricercate là dove sorgono come vivente realtà, non ancora alterate o negate nella forma alla quale si debbono vincolare per divenire coscienti.
Le latenze psichiche (vâsanâ), la prakriti inferiore, la mâyâ, proprie dell’occidentale, sono ben altra cosa che per il tipo umano contemplato nella tradizione indù, al quale tali nozioni si riferivano.
Il processo di materializzazione e la conseguente esperienza di pensiero realista, pragmatista, scientista, sono qualcosa di ancora più profondo nella loro negatività che non quanto è contemplato come illusione del sensibile in quella tradizione. Come si mostrerà, proprio grazie alla presenza di forze più essenziali, l’occidentale ha potuto sostenere il peso dell’esperienza tellurico-meccanica e di conseguenza sollecitare radicalmente le correnti della vita volitivo-istintiva. Il compito, pertanto, non è eludere l’esperienza, ma prender coscienza delle forze in essa richiamate: che, non riconosciute, travolgono l’uomo.

La vera metafisica
Suggerire come via al cercatore occidentale una “conversione” secondo metafisiche orientali non può essere che un mitico filosofare: una simile richiesta può essere ravvisata espressione essa stessa della logica astratta, ossia di quel pensiero occidentale che, inconsapevole del proprio processo, continuerà a interpretare dottrine e pratiche, rinunciando alla coscienza di sé e contemplando un cosmo spirituale indipendente dall’attività conoscitiva vera suscitatrice dell’esperienza. Se contenuti eterni sono in quelle metafisiche, essi possono risorgere unicamente grazie a un atto interiore che non è mistica sensibilità, difficilmente chiara e consapevole, bensì sublimazione di un pensiero di fattura tipicamente occidentale: quello stesso che, rivolto al mondo sensibile, limitandosi all’indagine fisica, dà l’odierna tecnica.
Il compito non è ignorare tale pensiero, eliminarlo o ridurlo al silenzio (come del resto potrebbe essere estromesso, se simultaneamente viene chiamato a interpretare le dottrine metafisiche e a decidere la scelta di una disciplina, compresa quella che vorrebbe eliminarlo o ridurlo al silenzio?) ma percepirlo in quella essenza che è presente in ogni suo momento, come trascendenza che vi immane. Averla nella sua realtà significa educarsi a guardarla meditativamente là dove non è ancora legata ad alcun contenuto sensibile. Sperimentarlo è allora la via al “sopra-individuale”, in quanto si lasciano a se stesse le categorie psico-somatiche – le quali non debbono minimamente intervenire nell’esperienza interiore come invece esige lo Yoga tradizionale – donando se stessi alla contemplazione di quel che ha inizio come trascendimento del pensiero nel pensiero.
Una simile contemplazione, ove si renda profonda nella sua purità, diviene visione del fondamento, che è la storia del Logos e della sua “presenza terrestre”. Si potrà mostrare infatti come l’esperienza realizzi l’ispirazione segreta dell’impresa allusa nella simbologia del Graal e da questa figurata come compimento finale della reintegrazione dell’uomo, quale si può cogliere nel tempo, nelle forme diverse della eterna rivelazione.
Quando si ritiene che la realtà sovrasensibile possa essere ritrovata mediante un superamento del razionalismo – che non viene mai veramente effettuato da chi non conosca la funzione ultima della razionalità – mentre si presume accedere a un sâdhana che si è potuto in qualche modo conoscere proprio con l’ausilio della ragione, si dimostra di voler cercare lo spirito ovunque, fuorché nel veicolo attraverso il quale concretamente comincia a mostrarsi. L’occidentale non può ignorare il mondo delle idee che il lui si fa essere e coscienza di essere, né può rinunciare al valore del percepire sensibile producentesi di continuo grazie a tale “coscienza di esistere”, è stimolata dal percepire sensorio.

Egli non può giungere a dissolvere la mâyâ col rinunciare a quella coscienza di sé che là dove si limita alla sua forma astratta è appunto suscitatrice della mâyâ, in quanto solo per questa il mondo appare scisso in una dualità: soggetto e oggetto, spirito e natura, io e non-io. col rinunciare a riconoscere l’illusorietà nella zona della coscienza in cui ha origine, l’occidentale la lascia intatta alla radice di sé: per cui cerca “fuori” lo spirituale che già nel suo cercare, come pensiero, affiora.
Nell’esperienza ordinaria, idea e percezione si presentano separate, in quanto non si avverte come la percezione già sorga permeata di attività ideale e in quanto artificiosamente vengono assunte come due sfere distinte da un intelletto che ignora il suo moto immediato nel percepire ed ha accettato come sua ed universale la dimensione sensibile. Solo un simile intelletto può rappresentarsi una natura senza spirito, avendo da essa separato senza avvertirlo la vita delle idee, che si è fatta sua astratta coscienza. Per la coscienza di sé l’uomo ha tolto al mondo e trasformato in sua personale razionalità la corrente vitale delle idee, riducendole ad astrazioni, soggettivizzandole e ritenendole sue, rinunciando alla possibilità che esse, acquisendo la loro intima vita (via della concentrazione e della meditazione) rivelino la loro obiettiva appartenenza alle cose. Perciò le cose sono cose, la natura appare natura, l’essere esistere: modo di vedere, che è solo una novità dell’uomo moderno e da cui era immune l’uomo antico. Così la materia appare una realtà in sé, con un suo fondamento in sé, naturalmente sognato o inconsciamente imaginato, per cui si è “realisti primitivi” anche quando ci si crede spiritualisti e quando si critica il “materialismo”. È notevole però come in un simile equivoco non incorresse, per esempio, Goethe allorché contemplò la natura, guardandola con quello “sguardo puro” con cui un tempo avrebbe potuto guardarla un maestro Ch’an, grazie ad un altro tipo di correlazione.

Conoscenza creatrice
Il mondo che si sperimenta mediante i sensi può realmente manifestare l’essenza nell’anima dell’uomo: gli enti e le cose possono esprimere in forme tessute di puro pensiero il loro principio, entelécheia, normalmente celato all’esperienza esteriore e la pensiero riflesso. Il suo non rivelarsi immediato è l’inganno per cui si crede privo di vita il pensiero senza oggetto, o “pensiero puro”, e, invece, reale il suo aspetto astratto, appunto perché riveste un contenuto ed è traducibile in discorso, proiettabile in una logica; mentre alla osservazione interiore risulta vero l’opposto: vitale ed obiettivo è il pensiero puro: esso è il vero contenuto.
L’inganno può essere gradualmente superato grazie alla disciplina del pensiero fondata sulle leggi stesse del pensare, che non sono un mondo di giudizi o di categorie, bensì l’universale che li motiva e li muove. L’essenza della natura, immanifesta e simultaneamente manifesta nelle forme esistenti, può esprimersi nell’uomo, solo che geli sappia aprirsi al movimento del pensiero dapprima affiorante come concetto, ossia nella orma riflessa, o astratta, riguardo all’oggetto: movimento che, animandosi, opera in lui come veste dell’essenza. Colui che possa far incontrare in sé il puro contenuto sensibile con il movimento di pensiero che gli corrisponde e per esso di desta, giunge ad avere come percezione le forze originarie del mondo: non può più contraddirle, perché le ha obiettivamente nel pensare integrato. Allora egli è sulla linea dell’ati-dharma, è liberato di leggi. Che la rivelazione dell’essenza si presenti da prima come concetto, o segno astratto, a cui la coscienza ordinaria si arresta, si deve alla limitata e provvisoria capacità di visione dell’uomo contemporaneo che, in effetto, si trova appena sulla soglia della vita del pensare. L’esperienza onde può essere varcata la “soglia” è infatti lo yoga che l’occidente può perseguire senza rinunciare alla sua natura, ma perciò stesso non è lo yoga della tradizione, bensì l’esperienza sovrasensibile additata dalla Scienza dello Spirito, dalla quale facciamo riferimento.

Dipende da una condizione transitoria che l’essenza unitaria del mondo si manifesti nell’uomo attraverso una dualità, il veicolo dei sensi e quello del pensiero – la “spada spezzata” della conoscenza – per cui ciascuno dei due aspetti, prevalendo con esclusione dell’altro, è errore, mentre è vero nel suo riferimento di profondità all’altro. Di questa dualità l’origine, l’essenza, è una: tuttavia, il discepolo non accetta l’unità come una dato mistico o vaga intuizione, ma solo in quanto egli possa sperimentarla per attività propria, lasciando avvenire nella coscienza la sintesi dei due poli dell’essere.



 Fonte: La Via della Volontà Solare - Massimo Scaligero - Tilopa 














[1] H. Maspero
[2] Chuang-tze, Acque d’autunno, Lanciano, Carabba, 1992, p38
[3] H. Maspero