Incontrai e parlai per la prima volta con Georges Gurdjieff nel 1924, un sabato pomeriggio di
giugno, nel castello del Prieuré a Fontainebleau-Avon, in Francia.
Sebbene le ragioni della mia presenza lì non mi fossero molto
chiare - avevo allora undici anni - il ricordo di quell'incontro è ancora
straordinariamente vivido in me.
Era una luminosa giornata di sole. Gurdjieff stava seduto a un
piccolo tavolo col piano di marmo, sotto un ombrellone a righe, volgendo la
schiena al castello e avendo di fronte un'ampia distesa di prato all'inglese con aiuole e fiori.
Dovetti rimanere sulla terrazza del castello, dietro di lui, per un certo
tempo, prima che m'invitasse a sedergli accanto per un colloquio. L'avevo già visto una volta a New York, l'inverno precedente, ma non mi
sembrava d'averlo «incontrato». Ricordavo solo che mi aveva impaurito, in parte
per il modo in cui aveva guardato me - o meglio attraverso di me - e in
parte per la reputazione di cui godeva. Mi era stato detto che era per lo meno un «profeta» o persino qualcosa che aveva
a che fare molto da vicino con la «seconda venuta di Cristo». Incontrare una qualunque versione di Cristo è un avvenimento, e non era certo un incontro che io attendessi con ansia. La sua presenza
non solo non mi attraeva, ma anzi mi terrorizzava. L'incontro reale non fu
commisurato ai miei timori. «Messia» o no, mi parve un uomo semplice,
schietto.
Non era circondato da nessun alone, e per quanto il suo inglese
rivelasse un forte accento straniero, mi parlò in modo ben più semplice di quanto
la Bibbia m'avesse indotto ad aspettarmi. Fece un gesto vago nella mia
direzione, mi disse di sedermi, ordinò un caffè, e quindi mi chiese per qual motivo
mi trovassi lì. Mi tranquillizzò molto scoprire che sembrava un comune mortale,
ma la domanda mi turbò. Ero
sicuro che si aspettasse una risposta importante, che dovessi avere un eccellente motivo
per esser lì. Non avendone alcuno, gli dissi la verità, ossia che ero lì perché mi ci avevano
portato. Mi chiese allora perché volessi studiare nella sua
scuola. Ancora una volta fui solo in grado di rispondere che non
dipendeva da me, che non ero stato neppure consultato, che di fatto ero stato
portato in quel luogo.
Ricordo il forte impulso a mentirgli e la sensazione altrettanto forte di
non poterlo fare, perché ero certo che già conoscesse la verità. L'unica
domanda a cui risposi non del tutto sinceramente fu quando mi chiese se
desideravo restare e studiare con lui. Dissi che lo volevo, il che non era sostanzialmente
vero. Lo dissi solo perché sapevo che ci si aspettava da me quella risposta.
Mi sembra, oggi, che ogni bambino avrebbe risposto nello stesso modo. Qualunque
cosa rappresentasse per gli adulti il Prieuré (il nome completo della
scuola era «Istituto Gurdjieff per lo Sviluppo Armonico dell'Uomo»), io mi sentivo
come chi viene interrogato dal direttore di una qualsiasi scuola secondaria.
Tutti i bambini andavano a scuola, e io accettavo la convenzione secondo cui
nessun bambino avrebbe detto al suo futuro insegnante che non desiderava andare
a scuola. L'unica cosa che mi stupì fu che la domanda mi fosse rivolta.
Gurdjieff poi mi pose altre due domande:
1. Che cosa pensi sia la
vita?
2. Che cosa desideri
conoscere?
Risposi alla prima domanda dicendo: «Penso che la vita sia
qualcosa che ti viene offerto su un vassoio d' argento e che spetti a te (a me)
farne qualcosa».
La risposta suscitò un lungo dibattito riguardo all'espressione «su
un vassoio d'argento», non senza un accenno di Gurdjieff alla testa di Giovanni
Battista. Ritirai l'espressione, o così allora mi parve, modificandola nel
senso che la vita è un «dono», e questo parve soddisfarlo.
La risposta alla seconda domanda (Che cosa desideri conoscere?)
era più facile. Dissi: «Voglio conoscere tutto».
Gurdjieff ribatté immediatamente: «Non puoi conoscere tutto. E poi tutto di cosa?».
Risposi: «Tutto dell'uomo». E aggiunsi: «In inglese credo si
chiami psicologia o forse filosofia».
Egli sospirò e dopo un breve silenzio disse: «Puoi rimanere. Ma
la tua risposta mi rende la vita più difficile. Io sono l'unico a insegnare
quello che chiedi. Cosi tu mi farai lavorare di più».
Fonte: La mia
fanciullezza con Gurdjieff – Fritz Peters