Potere e disuguaglianze globali
Fonte: Sociologia generale - temi, concetti, strumenti di David Croteau e William Hoynes
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Nel 2010,
con il boom del mercato azionario, per la prima volta la Apple ha superato la Microsoft,
diventando l'azienda di alta tecnologia a più alta capitalizzazione di mercato
del mondo (Helft e Vance, 2010). In Cina, però, gli operai che assemblano molti
prodotti Apple, tra cui i
diffusissimi iPhone e iPad, non hanno festeggiato di certo la buona notizia:
nei primi cinque mesi dell'anno si suicidarono in dieci, per la maggior parte
gettandosi dai balconi dei dormitori costruiti dall'azienda accanto alla
megafabbrica di Shenzhen (BBC, 2010a; 2010b). Quegli operai erano alle dipendenze
della taiwanese Foxconn Technologies, il più grande assemblatore
del mondo di computer e dispositivi portatili, che lavora per Apple e per altre
aziende dell'alta tecnologia. I dipendenti della Foxconn lavorano sei giorni alla settimana per una paga-base di 132
dollari al mese; l'impegno quotidiano va dieci a dodici ore, e lo straordinario
è la norma; non possono parlare durante il turno e sono assoggettati a una
disciplina militare, che ha fatto dire a uno di loro: "È come una
prigione". Eppure, la Foxconn è
considerata una delle migliori aziende per cui lavorare: in molte altre
fabbriche cinesi, le condizioni di lavoro sono assai peggiori.
L’ondata
di suicidi ha attirato un’imbarazzante copertura mediatica, finché le autorità
cinesi non hanno imposto alla stampa di abbassare i toni. Quando i media
occidentali hanno riportato la vicenda e le imprese che appaltano la produzione
alla Foxconn hanno manifestato
preoccupazione, l’azienda ha aumentato i salari del 20% per sollevare il morale
delle maestranze e ha messo delle reti ai balconi dei dormitori per prevenire i
tentativi di suicidio.
Dietro i
brand di successo dell’elettronica di consumo e di altri settori che dominano l’economia
globale di oggi si nascondono spesso casi analoghi di sfruttamento della
manodopera.
Consumo e identità
Probabilmente
i vostri bisavoli avevano delle identità che riflettevano i luoghi in cui erano
nati e dove avevano vissuto e lavorato, le loro credenze religiose e i forti
legami che li univano a una determinata comunità.
La vostra
identità, invece, è senza dubbio ancora in formazione, magari per effetto di
diversi mutamenti: il cambiamento di scuole e di amicizie, l’andare a vivere da
soli e la progettazione di un percorso di carriera mentre frequentate
l’università. La natura della nostra identità riflette in gran parte la natura
della nostra società.
Come
scrisse il sociologo Paul Berger (1963), “Le società tradizionali assegnano
identità definite e permanenti ai loro membri”.
“nella
società moderna”, osserva Berger, “l’identità è incerta e in divenire”.
Poiché la
famiglia di origine e il luogo di nascita non determinano più necessariamente
il nostro futuro, lo sviluppo del nostro Sé non è automatico.
In una
società ultra commercializzata, in cui quasi tutto è in vendita, ciò che
acquistate e dove lo acquistate possono assumere una grande importanza
nell’affermazione della vostra identità.
Il consumismo è un’enfasi sullo shopping e
sul possesso di beni materiali come via d’accesso alla felicità personale.
Attraverso il prodotto, i pubblicitari vendono un’identità, e gli individui, a
laro volta, esprimono la propria identità attraverso le scelte che fanno nel
proprio ruolo di consumatori (o con il rifiuto del consumismo).
Nel suo
libro dal titolo azzeccatissimo, The Conquest of Cool, lo storico della cultura
Thomas Franck (1997) ha dimostrato che negli anni ’60 i pubblicitari
sfruttarono la cultura popolare dell’epoca per promuovere il consumo come forma
di autoespressione creativa. Svariati beni di consumo venivano presentati come
oggetto di elezione da parte dei non-conformisti, dei ribelli e dei tipi “alla
moda”, per esempio i furgono Volkswagen, le macchine fotografiche Polaroid e le
moto suzuki. La pubblicità induceva i consumatori a rifiutare il conformismo –
seguendo l’invito ad acquistare determinati prodotti. Il risultato,
naturalmente, era la riproduzione di un nuovo conformismo: quello di tutti
coloro che acquistavano i prodotti associati alla ribellione. Il fatto che le
grandi imprese propongano il consumo di massa come mezzo di autoespressione e
di ribellione individuale – per paradossale che possa apparire – emerge
frequentemente nelle campagne pubblicitarie. Nel 2010, per esempio, quando
venne lanciato il primo tablet, la Apple reclamizzò la “rivoluzione” dell’iPad;
la campagna precedente, volta a promuovere i Macintosh, aveva come slogan Think
Different (“Pensa differente”) e utilizzava l’immagine di grandi rivoluzionari
come il Mahatma Gandhi, John Lennon e Martin Luter King jr.
Lontano
anni luci dal concetto marxista secondo cui dovrebbero soddisfare dei bisogni
elementari, i beni di consumo di oggi si incentrano spesso sull’immagine e
sull’identità.
I brand
che scegliamo sono carichi di un significato sociale che va ben oltre l’uso
pratico del prodotto. Beni di prestigio (come le automobili, l’elettronica e i
capi di abbigliamento) riflettono sempre più il nostro “prestigio” sociale
(Baudrillard, 1988b).
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