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mercoledì 26 gennaio 2011

Il tempo

O vecchio, o lento e celere, che chiudi e riapri
Dovremo chiamarti buono, o forse cattivo?
Sei largo insieme e tenace: i doni che porgi, li togli,
quel che fai nascere, poi li uccidi;
e quel che dal tuo ventre generi, nel tuo ventre divori
tu cui è lecito consumar con le fauci il frutto del tuo seno.
Tutto crei e tutto distruggi, perciò che non potrei per questo
Chiamarti forse buono o forse cattivo?
Ma quando mi sorprenderai col rapido colpo mortale
con la minacciosa falce, lasciami tender le mani
la dove non appaian vestigia dal nero Caos;
così non apparirai buono, non apparirai cattivo.
(Giordano Bruno)

Cos’è il Tempo? E’ forse un’illusione dei nostri sensi? E’ una dimensione così come lo sono altezza, larghezza e profondità da noi percepite? Il mito di Kronos che ingoia i suoi figli offusca forse il significato recondito del tempo. Eraclito celebrò l’esistenza come incessante divenire. Esistere significa essere capaci di trasformazione mentre il cristallizzarsi nel tempo dei pattern comportamentali è la manifestazione più clamorosa del “disordine mentale”.

L’En to pan, degli antichi alchimisti rivela che nell’uno, passato, presente e futuro, coesistono. Per uscire dall’immanente e accostarsi al trascendente occorre vincere il tempo, ma il suo flusso è realtà o inganno? Come misuriamo il tempo e come lo manifestiamo? Possiamo misurare un evento meccanico ciclico, come la rotazione della Terra attorno al suo asse, e possiamo manifestarlo con la rotazione delle lancette di un orologio. Il tempo appare così misurato e sconfitto dalla ciclicità che come il serpente Ouroboros, è l’uno, il tutto nell’eterno divenire.

La ciclicità è vibrazione, è oscillazione, come le attuali teorie quantistiche hanno palesato, vibrazione e materia sono due aspetti della stessa natura. E in questo illimitato trascorrere, oggi, noi come possiamo riprenderci il nostro tempo? O meglio, come possiamo emanciparci da esso? Ora lui è il nostro più grande tiranno, soprattutto per noi occidentali che misuriamo tutto: ore lavorative, pause pranzo, tempo da dedicare a famiglia, amici, divertimenti. E’ quasi paradossale pensare che grazie alla tecnologia riusciamo a fare sempre più in sempre meno tempo, e per assurdo dovrebbe avanzarci tempo. Avremmo quindi “tempo libero”, ma che farsene? Che farsene di questo tempo da riempire? In questa nevrosi collettiva siamo ormai incapaci di rilassarci, di prenderci tempo, rimane solo uno “spazio vuoto” da riempire, ma di cosa? Il rischio è che la vita diventi qualcosa che ci succede mentre siamo impegnati in altro. Si è terrorizzati dal fermarsi, dalla riflessione, dal lasciar sorgere domande scomode, questioni irrisolte. Credo che ognuno di noi abbia avvertito questo malessere, questa nostalgia per una vita differente, in cui il tempo non sia più despota ma servitore dell’uomo e delle sue relazioni.

E. Levinas: “La dialettica del tempo è la dialettica stessa della relazione con gli altri”.

Per la “sanità” dell’uomo e delle sue relazioni è sempre più necessario che all’ottica angusta e soffocante del “tutto e subito” si contrapponga la saggezza di chi pazientemente sa costruire le relazioni, aspettando i tempi di ciascuno e cogliendo sempre più la verità e la bellezza dei momenti dati. Per cui al “non ho tempo” contrapporrei “ho tempo per te”, il rapporto con l’Altro qualifica il mio tempo e gli fa assumere una dimensione eterna.
Paradossalmente il tempo, pur essendo misurabile e quantificabile dalle leggi fisiche è parimenti una categoria psicologica, condizionata cioè dalla percezione soggettiva, per cui un minuto può sembrare non passi mai e invece gli anni volino come un soffio …

Per il capitalismo classico, il tempo perduto è ciò che non è produzione, accumulazione, risparmio. Il fatto è che l’astuto capitalismo moderno, ha la necessità di accrescere i consumi, elevare il livello di vita, ma francamente ciò mi pare privo di senso. Poiché simultaneamente, le condizioni della produzione parcellizzata e cronometrata sono divenute obsolete e antieconomiche. La morale, già attiva in pubblicità, propaganda, e in tutte le forme dello spettacolo regnante, ammette invece apertamente che il tempo perduto è quello del lavoro, giustificato solo dai vari livelli del guadagno, che consente di comprare riposo, consumi, svaghi, cioè una passività quotidiana fabbricata e controllata dal capitalismo. Ora se consideriamo l’artificiosità dei bisogni di consumo, creata dal nulla, e continuamente stimolata dall’industria moderna, se s’identificano il vuoto degli svaghi e l’inattuabilità del riposo, si può porre la domanda in modo più realista: che cosa non è il tempo perduto? In altre parole: lo sviluppo di una società dell’abbondanza dovrebbe portare all’abbondanza di che cosa?[1].

Scrive John Zerzan: Il tempo ci presenta un enigma filosofico, un mistero psicologico e un rompicapo per la logica. Non sorprende che, considerando l'enorme reificazione che esso comporta, siano stati espressi dubbi sulla sua stessa esistenza fin da quando l'umanità iniziò a distinguere il "tempo" dai cambiamenti visibili e tangibili nel mondo. 
Come disse Michael Ende (1984): "C'è nel mondo un grande, seppure ordinario, segreto. Tutti ne siamo a conoscenza, ognuno ne è consapevole, ma pochissimi se ne interessano. La maggior parte di noi semplicemente lo accetta e non ci pensa mai”. 
Tanto in modo empirico che teorico, i laboratori non sono in grado di rivelare lo scorrere del tempo poiché non esiste strumento in grado di registrare il suo passaggio. Ma perché abbiamo una forte sensazione che il tempo scorra, ineluttabilmente ed in una precisa direzione, se in realtà ciò non accade? Perché questa "illusione" ha un tale potere su di noi? A questo punto possiamo chiederci perché l'alienazione ha un tale potere su di noi. Ci siamo conformati alla legittimità del tempo così che ora sembra un fatto naturale, un potere che ha pieno diritto di esistere. Lo sviluppo del senso del tempo - l'adeguamento al tempo - è un processo di assuefazione ad un mondo sempre più reificato.
Zerzan sostiene che il tempo non è sequenza o ordine di successione. Ad esempio il cane di Pavlov, deve aver capito che il suono del campanello era seguito dal cibo, diversamente come poteva essere condizionato nel produrre, saliva a quel suono? I cani non hanno coscienza del tempo, quindi non si può dire che prima e dopo costituiscano il tempo.

Allora cosa è il tempo? Se dico a mia nipote di cinque anni “domani verrò a trovarti” lei mi risponde: “Quando è domani?”.

Secondo Zerzan “le giornate del bambino sfuggono al tempo degli adulti, sono intrise dalla soggettività, dalla passione, dal sogno abitato di reale. Fuori, gli educatori vigilano, attendono orologio alla mano, che il bambino entri nella danza delle ore. Il bambino sente dapprima un’intrusione estranea, l’impostazione da parte degli adulti del tempo loro; poi finisce per soccombervi, acconsente a invecchiare”.
Ignorando tutto dei metodi di condizionamento, il bambino si lascia prendere in trappola, come un giovane animale. Quando, detentore delle armi della critica, vorrà puntarle contro il tempo, gli anni l’avranno trascinato lontano dal bersaglio. Porterà l’infanzia nel cuore come una ferita sempre aperta.

Gli adulti non danno tregua al bambino: vogliono che superi in fretta le tappe, che acceleri i suoi ritmi. Non hanno pazienza con la sua naturale lentezza, con le sue ripetizioni spontanee, osservabili, a cominciare dalla nascita, in ogni tappa dello sviluppo e in ogni apprendimento. Ebbene, questo incalzare gli giova? Realmente gli fa “guadagnare” tempo e, non ultimo, lo fa stare meglio?[2]

"Invero i bambini conducono una vita completamente diversa dalla nostra, poiché per loro “domani” non esiste, non sanno cosa sia, e lo stesso vale per “ieri”. Loro sono fuori dal tempo, sono esattamente nell’hic et nunc, ma allora perché continuiamo insistentemente a strapparli da questa idilliaca condizione? Li obblighiamo a crescere prima del “tempo”, ma è poi crescere vivere tra passato e futuro? Non vivere l’attimo? Essere continuamente proiettati verso una dimensione inesistente?"

Nessun adulto, prosegue Zerzan, può avere la libertà dal tempo di cui gode il fanciullo e di cui dovrà essere privato. L’apprendimento del tempo è fondamentale nell’educazione ed è vitale per la società.

Si accendono le luci in sala. Lo gnomo si volge verso il folletto dicendo: “Hai visto? or come faremo a sapere le nuove del mondo se il tempo è perduto?” Il folletto risponde: “Che nuove? Che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccicato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regno né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si somigliano l’uno all’altro come uovo a uovo, i giorni della settimana non avranno più nome e non si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si stamperanno più lunari”. Lo gnomo, guardando, negli occhi il lettore concludendo dice: “Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada[3]


Guyau[4] (1890) affermò che lo scorrere del tempo costituisce “la distinzione fra ciò che si desidera e ciò che si ha” e pertanto “il principio del rimpianto”.

Carpe diem, consiglia la massima, ma la civiltà ci obbliga sempre a ipotecare il presente per il futuro.
L’uniformazione mondiale del tempo segna una vittoria per l’efficace meccanismo sociale, un universalismo che sopprime l’individualità
Per Marcuse l’atemporalità è il modello ideale del piacere poiché il tempo è nemico dell’eros ed è un profondo alleato di ordine e di repressione.
In effetti, Freud stabilì (1920) che i processi mentali dell’inconscio trascendono il tempo: “...il tempo non li cambia in alcun modo e l’idea del tempo non può essere applicata ad essi”. Pertanto il desiderio è già estraneo al tempo.
Il tempo stringe il suo cappio al nostro collo e il carico di questa pressione sempre più incalzante è dimostrato dal numero crescente di pazienti che presentano sintomi di ansia dovuta al tempo (Lawson, 1990).
Per Capek (1961) il tempo è “una colossale e cronica allucinazione della mente umana”; sono davvero poche le esperienze senza tempo, l’orgasmo, 1’LSD, l’estremo pericolo ... queste sono alcune delle rare situazioni abbastanza intense da eludere l’invadenza del tempo.
André Breton si accorse dell’importanza del sogno e, vivendolo invece che sezionandolo, sostenne che sogno e realtà sono due vasi comunicanti che s’influenzano a vicenda. Concetto ribadito in tempi più recenti dall’eclettico Alejandro Jodorowsky, il quale, compiendo un viaggio nelle profondità del proprio mondo interiore, è arrivato a leggere la vita come un sogno da interpretare. Nel sogno il tempo non esiste e noi viviamo nell’eterno presente.

Per Whitrowi primitivi vivono nell’adesso, come tutti noi quando ci divertiamo[5], lo stesso vale per Nietzsche: “Tutto il piacere desidera l’eternità - una profonda, profonda eternità”.

Eliade scoprì nell’esperienza sciamanica una “nostalgia per il paradiso”, sostenendo che ciò che lo sciamano può fare in estasi, poteva, prima dell’egemonia del tempo, essere fatto da tutti gli esseri umani[6].

Nostalgia dunque come rammarico per ciò che abbiamo perduto, per una vita degna di essere vissuta, piena e consapevole.


La crescita è vissuta come accumulazione, rassicurazione, rinuncia, ripetizione. Tutto ciò è abbastanza triste, e soprattutto, ciò che chiamano crescere è scandito dall’ossessione del tempo. In tal modo le persone si adeguano all’età, che finisce per soggiogarli.  Il crescere non è che un biglietto di sola andata per le terre aride della normalizzazione, è allevare una smisurata energia vitale, per poi abbandonarla alla sterilità di un sistema esistenziale soffocante. In parecchi hanno raccontato che questo tempo, questa età, sono sostanzialmente trappole psicologiche. Krishnamurti ci ha raccontato che esiste invece un’attività senza tempo.
Essere consapevole significa vivere di là del tempo e dell’età, e la vastità con cui si vive può veramente mostrare il ritmo specifico dei nostri neuroni, facendoli scivolare fuori dal meccanismo del tempo. La passione è il rimedio all’obsolescenza. L’intensità e la felicità delle esperienze, l’estensione dei sensi e dei sentimenti, rinvigoriscono e reiterano la struttura molecolare, il sistema nervoso, perfino la pelle. Tutte le esperienze quint’essenziali si palesano con una sospensione del tempo, ci conducono oltre. L’estasi, le illuminazioni, trapassano il tempo e arrivano all’essenza superiore che noi siamo. L’amore dei corpi e dello spirito, genera lampi di vita, dove il tempo sparisce.
Lasciamo il tempo seriale, e accarezziamo un tempo biologico e un tempo cosmico.
E’ in questi frangenti che dissolvono il tempo che le persone vivificano il proprio stato di grazia; dove l’eternità non ha niente a che vedere con il tempo [7].



[1] Bontempi, L. (2000) I temponauti, Nautilus, Torino, p. 26.
[2] Honegger Fresco, G. (1996) Prefazione a Emmi Pikler, Datemi tempo, Red, Como, p. 10.
[3] Bontempi, L. (2000) I temponauti, Nautilus, Torino, p. 45.
[4] Guyau,  J. M. (1884) Les problèmes de l'esthétique contemporaine, Alcan, Paris, p. 20.
[5] Withrow, G. J. (1972) Along the Fourth Dimension, Oxford University Press, London, p. 119.
[6] Eliade, M. (1974) Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, Mediterranee, Roma.
[7] Bontempi, L. (2000) I temponauti, Nautilus, Torino, pp. 30-31.

venerdì 21 gennaio 2011

La biologia delle credenze di Bruce H. Lipton

Darwin non negava l’esistenza di Dio; riteneva semplicemente che il caso, e non l’intervento divino, fosse il responsabile del carattere della vita sulla Terra. Nel suo libro del 1859, L’origine della specie, Darwin sostiene che i tratti specifici degli individui si trasmettono dai genitori ai figli, e che tali “fattori ereditari” controllino le caratteristiche della vita di ogni individuo.
Questa intuizione gettò gli scienziati in una frenetica ricerca nel tentativo di sezionare la vita riducendola ai suoi elementi molecolari di base, perché era lì che si dovevano trovare i meccanismi ereditari che controllano la vita.
La ricerca si concluse con un notevolissimo risultato nel 1953 James Watson e Francis Crick descrissero la struttura e la funzione della doppia elica del DNA, il materiale di cui sono composti i geni. Finalmente la scienza era riuscita a scoprire la natura dei “fattori ereditari” di cui Darwin aveva parlato.

La moderna biologia dà troppo poca attenzione all’aspetto fondamentale della cooperazione, poiché le sue radici darwiniane sottolineano soprattutto la natura competitiva della vita. Per tanto è messa in discussione non solo la visione darwiniana “mors tua-vita mea” dell’evoluzione, ma anche il Dogma Centrale della biologia, cioè che i geni controllano la vita, in quanto i geni non possono “accendersi” o “spegnersi” da soli, ovvero non entrano in funzione da sé. Deve esserci qualcosa nell’ambiente che innesca l’attività genetica.

L’epigenetica, che è lo studio dei meccanismi molecolari per mezzo dei quali l’ambiente controlla l’attività dei geni, è oggi uno dei campi più attivi della ricerca scientifica.
Voi potete ritenervi individui, ma in realtà siete una comunità di circa 50 trilioni di abitanti, cioè di cellule.
Noi non siamo vittime dei nostri geni, ma gli artefici del nostro destino, in grado di creare una vita traboccante di pace, felicità e amore.

La farmacologia e la chirurgia sono strumenti potenti, quando non se ne abusa, ma l’idea che un farmaco possa mettere tutto a posto è profondamente sbagliata.
Ogni volta che un farmaco viene introdotto nel corpo per correggere la funzione A, scombussola inevitabilmente la funzione B, C o D. Non sono gli ormoni e i neurotrasmettitori, diretti dai geni, che controllano il nostro corpo e la nostra mente; sono le nostre convinzioni a controllare il corpo, la mente e quindi la nostra vita.

Probabilmente ricorderete gli elementi principali della cellula: il nucleo, che contiene il materiale genetico; i mitocondri, che producono energia; la membrana esterna; e tra questi ultimi due, il citoplasma. Ma all’interno di questa struttura anatomicamente semplice c’è un mondo complesso, e queste piccole cellule intelligenti impiegano tecnologie che la scienza è ancora lontana dal conoscere a fondo.
La maggior parte dei componenti della cellula sono chiamati organelli, ovvero “organi” in miniatura, in sospensione nel citoplasma gelatinoso. Gli organelli sono gli equivalenti funzionali dei tessuti e degli organi del nostro corpo. Comprendono il nucleo, che è l’organello più grande, i mitocondri, l’apparato di Golgi e i vacuoli.
Anche se gli esseri umani sono composti di trilioni di cellule, non c’è neppure una funzione “nuova”, che non sia già utilizzata dalla cellula. Ogni eucariote (cellula dotata di nucleo) possiede gli equivalenti funzionali del nostro sistema nervoso, apparato digerente, sistema respiratorio, escretorio, endocrino, muscolo-scheletrico, circolatorio, tegumentale (pelle), riproduttivo e persino un primitivo sistema immunitario, che utilizza una famiglia di proteine “ubiquitine” analoghe agli anticorpi.

Attraverso un processo chiamato permutazione somatica, le cellule immunitarie attivate producono centinaia di copie del loro gene dell’anticorpo originario. Tuttavia, ogni nuova versione del gene presenta una lieve mutazione, quindi codifica un anticorpo di forma leggermente diversa. La cellula sceglierà la variante del gene che costituisce l’anticorpo più adatto.

La spinta evoluzionistica in direzione di comunità sempre più grandi riflette semplicemente l’imperativo biologico della sopravvivenza. Più consapevolezza del suo ambiente possiede un organismo, migliori saranno le possibilità di sopravvivenza. Quando le cellule si aggregano, aumentano esponenzialmente la loro consapevolezza.

Il sistema nervoso ha la funzione di percepire l’ambiente e di coordinare il comportamento di tutte le altre cellule della grande comunità cellulare.

Benché Darwin sia l’evoluzionsita più famoso, il primo a formulare l’idea di evoluzione su basi scientifiche fu il biologo francese Jean-Baptiste Lamarck. Egli non solo formulò la sua teoria 50 anni prima di Darwin, ma la sua è una teoria del meccanismo dell’evoluzione molto meno severa. La sua teoria suggeriva l’idea che l’evoluzione si basasse su un’interazione “istruttiva” e cooperativa tra gli organismi e il loro ambiente, interazione che consente alle forme viventi di sopravvivere e di evolvere in un mondo dinamico.
Riteneva che gli organismi acquisiscono e trasmettono gli adattamenti necessari alla sopravvivenza in un ambiente che muta.
La teoria di Lamarck fu subito attaccata dalla Chiesa. Il concetto che gli esseri umani si fossero evoluti da forme di vita inferiori venne denunciata come eresia e Lamarck venne stigmatizzato anche dai suoi colleghi creazionsiti che misero in ridicolo le sue teorie.
Lamarck affermava che gli organismi assumono determinati caratteri solo se servono alla sopravvivenza.

I batteri presenti nello stomaco e nell’intestino contribuiscono alla digestione del cibo e permettono l’assorbimento delle vitamine. La cooperazione tra batteri ed esseri umani è il motivo per cui l’uso indiscriminato di antibiotici è un danno per la salute. Gli antibiotici sono killer che non guardano in faccia nessuno: uccidono con la stessa efficienza tanto i batteri nocivi quanto quelli indispensabili alla nostra salute.

Gli organismi viventi integrano effettivamente le loro comunità cellulari mediante la condivisione dei loro geni. Inizialmente si riteneva che i geni si trasmettessero da un organismo individuale alla sua discendenza solo attraverso la riproduzione, ma ora sappiamo che i geni sono condivisi non solo dai membri di una specie, ma anche tra membri di specie diverse. La condivisione di informazioni genetiche via trasferimento di geni (gene transfert) accelera l’evoluzione, dato che gli organismi possono acquisire le esperienze “apprese” di altri organismi.
I geni sono memorie fisiche delle esperienze apprese da un organismo. Lo scambio di geni tra individui recentemente riconosciuto distribuisce queste memorie, collaborando così alla sopravvivenza di tutti gli organismi che formano la comunità della vita.

Un recente studio rivela che quando gli esseri umani digeriscono alimenti geneticamente modificati, i geni creati artificialmente si trasferiscono nei caratteri dei batteri utili all’intestino, alterandoli (Heritage 2004; Netherwood et al. 2004). Allo stesso modo, il trasferimento di geni tra prodotti OGM e le specie spontanee circostanti ha dato origine a specie altamente resistenti, considerate super-infestanti.
L’ingegneria genetica non ha mai preso in considerazione la realtà del trasferimento di geni quando ha introdotto nell’ambiente organismi geneticamente modificati. Ora che quei geni si stanno diffondendo nell’ambiente e stanno alterando altri organismi, iniziamo a esperimentare le conseguenze nocive di una tale superficialità (Watrud ed al. 2004).

Gli evoluzionisti genetici avvertono che, se non applicheremo la lezione della condivisione del destino genetico, che dovrebbe insegnarci il valore della cooperazione tra tutte le specie, metteremo a repentaglio l’esistenza dell’umanità. Dobbiamo andare al di là della teoria darwiniana, che enfatizza l’importanza degli individui, e mettere in primo piano l’importanza della comunità.
In una lettera del 1976 a Moritz Wagner, (Darwin. F 1888) scriveva: “A mio parere, il più grave errore che ho commesso è non aver dato sufficiente peso all’azione diretta dell’ambiente: il nutrimento, il clima, e così via, indipendentemente dalla selezione naturale … Quando scrissi l’Origine, e per molti anni a seguire, non trovai che scarsissime prove dell’azione diretta dell’ambiente; ora invece sono numerose”.
I sostenitori di Darwin continuano a commettere lo stesso errore.

È indubbio che alcune malattie come la corea di Hungtington, la talassemia beta e la fibrosi cistica, siano da attribuire a un unico gene difettoso. Ma i disturbi dovuti a un singolo gene colpiscono meno del 2% della popolazione; la grande maggioranza viene al mondo con un patrimonio genetico adatto a vivere una vita sana e felice.
Le malattie che rappresentano i flagelli del nostro tempo (il diabete, le malattie cardiovascolari e il cancro), mandando in corto circuito una vita sana e felice, non sono causate da un gene, ma da complesse interazioni di molteplici fattori genetici e ambientali.
Geni specifici sono in relazione al comportamento e ai caratteri di un organismo, ma questi geni non si attivano finché qualcosa non li fa scattare.

Le proteine del citoplasma che cooperano nella creazione di specifiche funzioni fisiologiche si raggruppano in specifici insiemi denominati vie. Questi gruppi sono classificati, in base alla loro funzione, come vie respiratorie, vie digerenti, vie della contrazione muscolare e il famigerato ciclo di Krebs responsabile della produzione di energia. Le cellule sfruttano i movimenti prodotti da questa macchina proteica per attivare determinate funzioni metaboliche e comportamentali. Le continue mutazioni di forma delle proteine che possono avere luogo migliaia di volte al secondo, sono i movimenti che azionano la vita.

Il Genoma umano completo consiste approssimativamente di circa 25.000 geni invece che degli oltre 120.000 previsti, più dell’80% del presunto e necessario DNA non esiste! Il concetto “un gene-una proteina” era un dogma fondamentale del determinismo genetico, ma la verità è che non ci sono abbastanza geni per spiegare la complessità della vita umana e delle malattie.
L’epigenetica (controllo sul patrimonio genetico), cambia radicalmente la nostra comprensione dei meccanismi di controllo della vita e ha dimostrato che i modelli di DNA trasmessi attraverso i geni non sono fissati alla nascita. I geni non sono il destino! Le influenze dell’ambiente, compreso il nutrimento, lo stress e le emozioni possono modificare i geni senza modificare il modello di base. E queste modifiche, come ha scoperto l’epigenetica, possono essere trasmesse alle generazioni future esattamente come i modelli del DNA (Reik e Walter 2001; Surani 2001).

Il primato dell’ambiente. La nuova scienza ci dice che l’informazione che controlla i processi biologici parte dai segnali ambientali che, a loro volta, controllano il legame tra le proteine regolatrici e il DNA. Le proteine regolatrici controllano l’attività dei geni. Negli anni ’60, Howard Temin sfidò il Dogma Centrale per mezzo di esperimenti che dimostrarono che l’RNA può opporsi alò flusso di informazioni previsto e riscrivere il DNA. Ottenne in seguito il nobel per i suoi studi sulla trascriptasi inversa, il meccanismo molecolare con cui l’RNA può riscrivere il codice genetico.
La gran parte dei tumori maligni è dovuta ad alterazioni epigenetiche indotte dall’ambiente e non da geni difettosi (Kling 2003; Jones 2001; Seppa 2000; Baylin 1997).
Il DNA non controlla i processi biologici, e il nucleo non è il cervello della cellula. Le cellule sono modellate dall’ambiente in cui vivono.

Il vero segreto della vita non sta nel DNA ma nella comprensione dei semplici ed eleganti meccanismi biologici della membrana “magica”, mediante i quali il vostro corpo traduce i segnali ambientali in comportamento. Per la cellula è importante permettere alle molecole di perforare la barriera perché, se la membrana fosse come un sandwich di pane e burro (la parte di pane e burro rappresenta i fosfolipidi, uno dei due principali componenti chimici della membrana assieme alle proteine/olive. I fosfolipidi sono “schizofrenici” perché si compongono di molecole sia polari che non-polari), formerebbe una barriera simile a una vera fortezza, impedendo l’entrata agli innumerevoli segnali. Ma se la membrana fosse una fortezza invincibile, la cellula morirebbe, perché non riceverebbe nessun nutrimento. Aggiungendo le proteine, che consentono alle informazioni e al cibo di penetrare nella cellula, la membrana si rivela un ingegnoso meccanismo vitale che consente alle sostanze nutritive adatte di penetrare all’interno della cellula.

I legami tra molecole polari hanno cariche positive e/o negative, e ciò fa si che si comportino come delle calamite attirando o respingendo altre molecole cariche.

Diciamo che le IMP possono essere suddivise in due categorie funzionali: proteine recettori e proteine effettori.

I recettori IMP sono gli organi di senso della cellula, corrispondenti ai nostri occhi, orecchie, naso … i recettori funzionano come nano-antenne molecolari sintonizzate su specifici segnali ambientali. I recettori hanno una conformazione attiva e una inattiva, e oscillan0o tra le due a seconda delle modificazioni della loro carica elettrica. Essendo i recettori in grado di leggere i campi energetici, la nozione che solo le molecole possono avere un impatto sulla fisiologia della cellula è superata. Il comportamento biologico può essere controllato da forze invisibili, compreso il pensiero, così come può essere controllato da molecole fisiche come la penicillina, fatto che avvalora scientificamente la medicina “energetica” che non ricorre all’uso di farmaci.

Solo negli ultimi anni i ricercatori hanno compreso l’importanza delle IMP della membrana, e la loro importanza è tale che lo studio del loro funzionamento è diventato un campo a se stante, denominato “trasduzione”, dei segnali.
È logico che i geni non possano pre-programmare una cellula o la vita di un organismo, perché la sopravvivenza della cellula dipende dalla sua capacità di adattarsi dinamicamente ai continui cambiamenti dell’ambiente. La funzione della membrana di interagire in modo “intelligente” con l’ambiente per determinare i giusti comportamenti, ne fa il vero cervello della cellula. 

Per esibire un comportamento “intelligente”, le cellule hanno bisogno di una membrana funzionante, con le proteine recettore (consapevolezza) ed effettore (azione) entrambe attive. Questi complessi proteici sono le unità base dell’intelligenza cellulare. Tecnicamente possiamo chiamarle “unità di percezione”, in quanto per definizione la percezione è: “la consapevolezza dell’ambiente attraverso le sensazioni fisiche”.

Quindi la membrana è un “semiconduttore”. Poi ci sono i recettori e una classe di effettori definiti “canali” perché forniscono alla cellula tutto ciò che le serve per lasciare entrare le sostanze nutritizie e per espellere i prodotti di scarto. Quindi la membrana contiene porte e canali, per tanto: “La membrana è un cristallo liquido semiconduttore, dotato di porte e canali”, e questa frase si equiparava alla definizione di un chip: “Un chip è un cristallo semiconduttore dotato di porte e canali”. 
  • La prima formidabile intuizione che ne deriva è che i computer e le cellule sono programmabili
  • La seconda intuizione è che il programmatore è esterno al computer/cellula. 
Il comportamento biologico e l’attività genetica sono dinamicamente collegati alle informazioni provenienti dall’ambiente, che vengono scaricate (downloaded) nella cellula. Pensando alla cellula come a un biocomputer, capii che il nucleo è semplicemente un hard disk, una memoria che contiene programmi del DNA che codificano la produzione di proteine.
Una volta scaricati questi programmi nella memoria attiva potete rimuovere il disco dal computer senza interferire con l’esecuzione del programma. Quando rimuovete il Disco Doppia elica asportando il nucleo, il lavoro della macchina proteica cellulare continua, perché le informazioni che l’hanno creata sono già state scaricate. Le cellule enucleate hanno dei problemi solo quando hanno bisogno dei programmi genetici, espulsi assieme al Disco Doppia elica, per sostituire le vecchie proteine o costruirne di nuove. Il nucleo, contenete i geni, non programma la cellula. I dati vengono inseriti nella cellula/computer attraverso i recettori della membrana, che possiamo paragonare alla testiera del computer. I recettori attivano le proteine effettori, che agiscono come unità centrale di elaborazione (CPU) della cellula/computer. Le proteine effettori CPU convertono le informazioni ambientali nel linguaggio comportamentale biologico.
La membrana “magica” non affida il controllo della vostra vita ai dadi genetici lanciati al concepimento, ma ce lo consegna tra le mani. Noi stessi siamo gli operatori della nostra biologia. Abbiamo la capacità di correggere i dati che inseriamo nei nostri bio-computer. Scoprendo in che modo le IMP controllano i processi biologici, diventeranno padroni del nostro destino, e non più vittime dei nostri geni.

Le IMP si agganciano ai segnali ambientali per indurre l’attività della cellula; ma, ignorando completamente l’universo quantistico, non riuscivo a valutare appieno la natura dei segnali ambientali che innescano il processo. Rimaniamo attaccati al mondo fisico di Newton e ignoriamo il mondo invisibile dei quanti di Einstein, in cui la materia è fatta di energia e non esistono assoluti. A livello atomico, non si può neppure affermare con certezza che la materia esista: esiste solo come tendenza a esistere. I fisici quantistici scoprirono che gli atomi materiali sono formati da vortici di energia in costante vibrazione e rotazione, ogni atomo è come una trottola in rotazione, che oscilla ed emette energia.

L’evoluzione ci ha dotati di numerosi meccanismi per la sopravvivenza, che possiamo grossonalmente suddividere in due categorie funzionali: la crescita e la protezione.
Quanto più a lungo rimanete in uno stato difensivo, tanto più comprometterete la vostra crescita. È addirittura possibile bloccare i processi di crescita al punto che la frase “essere spaventati a morte” diventa una realtà.
Per sperimentare pienamente la vitalità, non basta liberarsi dai fattori di stress, ma cercare attivamente una vita gioiosa, piena d’amore e gratificazione, che stimoli i processi di crescita.
Quali paure ostacolo nano la vostra crescita? Da dove vengono queste paure? Sono necessarie? Sono reali? Contribuiscono a una vita più piena?

Nell’uomo i comportamenti fondamentali, le convinzioni e gli atteggiamenti che osserviamo nei genitori diventano collegamenti permanenti sotto forma di vie sinaptiche, nella nostra mente subconscia. Una volta immagazzinati nella mente subconscia, essi possono controllare i nostri processi biologici per il resto della nostra vita … a meno che non troviamo il modo di riprogrammarli.
L’evoluzione dei mammiferi superiori, compresi gli scimpanzé, i cetacei e l’uomo, portò con sé un nuovo livello di coscienza chiamata “auto-coscienza” o più semplicemente coscia. 
L’avvento della mente conscia costituì un progresso fondamentale nell’evoluzione.
La precedente mente subconscia è il nostro “pilota automatico”, e la mente conscia è il controllo manuale.
Esempio se una palla viene scagliata contro il vostro occhio, la mente conscia, più lenta, può non avere il tempo di accorgersi della minaccia. In compenso la mente subconscia, che processa circa 20.000.000 di stimoli ambientali al secondo contro i 40 processati dalla mente conscia, vi farà chiudere l’occhio.
La mente subconscia osserva specificatamente tanto il mondo esterno quanto la consapevolezza interna del corpo, legge i segnali ambientali e fa scattare immediatamente i comportamenti precedentemente acquisiti; il tutto senza l’aiuto, la supervisione e neppure la consapevolezza della mente conscia.
Le due menti formano una coppia dinamica. Operando assieme, la mente coscia può utilizzare le proprie risorse per concentrarsi su qualcosa di specifico. Contemporaneamente, la mente subconscia può spingere in tutta sicurezza il tagliaerba senza che vi tranci un piede o investa il gatto, anche se non state coscientemente prestando attenzione ai suoi movimenti.
Le due menti cooperano anche nell’acquisizione di comportamenti molto complessi, che possono in seguito essere gestiti senza la partecipazione della mente conscia.
Oltre a mettere in atto i programmi subconsci abituali, la mente conscia ha anche il potere di essere spontaneamente creativa nelle risposte agli stimoli ambientali. Grazie alla sua capacità auto-riflessiva, la mente conscia può osservare i comportamenti mentre vengono svolti. Mentre è in atto un comportamento pre-programmato, la mente conscia che osserva può intervenire, bloccare quel comportamento e indurre una nuova risposta. La mente conscia ci offre così il libero arbitrio, il che significa che non siamo le vittime impotenti della nostra programmazione, ma per riuscirci, dobbiamo essere pienamente coscienti, affinché il programma non assuma il controllo; compito non facile, come può confermare chiunque abbia provato a esercitare la volontà. Appena la mente conscia smette di fare attenzione, la programmazione subconscia riprende il sopravvento. La mente conscia ha anche la capacità di spostarsi aventi e indietro nel tempo, mentre la mente subconscia agisce sempre nel momento presente.
Le due mente costituiscono un meccanismo davvero fenomenale, ma ecco come può capitare che le cose vadano storte. La mente conscia è il “sé”, la voce dei nostri pensieri.

Può fare grandi progetti per un futuro colmo di salute, felicità e prosperità; ma, mentre siamo coscientemente concentrati su questi pensieri felici, chi è che conduce il gioco? Il subconscio. E in che modo si occuperà dei nostri affari? Esattamente nel modo in cui è stato programmato. I comportamenti della mente subconscia, quando l’attenzione cosciente è assente, possono anche non essere stati creati da noi, perché la maggior parte dei nostri comportamenti base è stata scaricata acriticamente attraverso l’osservazione di altre persone. I comportamenti appresi e le convinzioni acquisite da latri, come dai propri genitori, compagni e insegnanti, non necessariamente collaborano agli obiettivi della nostra mente conscia. I maggiori ostacoli alla realizzazione dei nostri sogni sono le limitazioni programmate nel subconscio.

Ma dichiarare guerra al subconscio è inutile, in quanto le cellule sono costrette a seguire i programmi subconsci. Le tensioni tra la forza di volontà conscia e i programmi subconsci possono provocare seri disturbi neurologici.

Le cellule mi hanno insegnato che siamo parte di un tutto, e se lo dimentichiamo lo facciamo a nostro rischio e pericolo. Ma ognuno di noi possiede un’identità biologica unica. Perché? Che cosa rende unica la comunità cellulare di ogni individuo? Sulla superficie delle nostre cellule c’è una famiglia di recettori dell’identità che differenziano un individuo dall’altro.
Un noto sottoinsieme di questi recettori, chiamati auto-recettori o leucociti antigeni umani (HLA), è collegato alle funzioni del sistema immunitario. Se i vostri auto-recettori venissero rimossi, le vostre cellule non rifletterebbero più la vostra identità, sarebbero solo cellule umane generiche.
Rimettete i vostri auto-recettori personali nelle cellule, e torneranno a riflettere la vostra identità.
I recettori della cellula non sono l’origine della sua identità, ma il veicolo per mezzo del quale il “sé” viene scaricato dall’ambiente. La mia identità, il mio “sé”, esiste nell’ambiente, che il mio corpo ci sia o che non ci sia. La mia identità è una firma complessa, contenuta nell’immensa informazione che compone collettivamente l’ambiente.

Tratto da: La biologia delle credenze, di Bruce H. Lipton, 2006, Macro Edizioni 






venerdì 14 gennaio 2011

K. Pribram e il modello olografico

Karl Pribram, viennese di nascita (1929), si mise alla ricerca della memoria, ossia di dove era situata la nostra memoria.

Inizialmente, negli anni ’40, si presumeva che la memoria fosse in punto del cervello e che ogni tipo di memoria (engrammi) si situasse tra le cellule celebrali.

Per Panfield tutto quello che viviamo e di cui siamo coscienti è registrato nel cervello.
Pribram non dubitava di ciò ma nel 1946 collaborando con Lashley, ebbe modo di vedere che le ricerche di quest’ultimo confutavano quelle di Panfield.

Lashley addestrava i topi a percorrere un labirinto, poi rimuoveva chirurgicamente parti del cervello e li rimetteva sul labirinto, ma non importava quanta parte di cervello asportava, al topo non si cancellava mai la memoria.
Certamente le capacità motorie erano compromesse ma la memoria no.

Pribram concettualizzò che la memoria non ha una sola situazione, ma è dunque distribuita. Anche se venivano rimosse parti dei lobi temporali (importanti negli studi di Panfield) non c’erano buchi nelle memorie dei pazienti.
Come era possibile? A metà degli anni ’60, Pribram, lesse un articolo di Scientific American che descriveva la costruzione del primo ologramma – si sentì come folgorato!

L’ologramma è possibile grazie ad un fenomeno chiamato “interferenza”, che è lo schema creato da due o più onde che si incrociano. Qualunque fenomeno ondulatorio può creare uno “schema di interferenza”, anche le onde luminose e le onde radio.


Come si ottiene un ologramma?
Un raggio laser viene separato in due raggi distinti. Il primo rimbalza sull’oggetto che si desidera fotografare. Il secondo si va invece a scontrare con la luce riflessa del primo. Questo crea uno “schema d’interferenza” che viene impresso su una superficie fotosensibile.
A prima vista, l’immagine sulla superficie non assomiglia affatto all’oggetto fotografato.. anzi sembra proprio la serie di onde prodotta dal sasso nello stagno … ma non appena un raggio laser attraversa la superficie, ecco apparire un’immagine tridimensionale dell’oggetto fotografato!
Si può persino camminarci intorno e vederla da differenti angolazioni, come fosse un oggetto reale.
Naturalmente, se si tenta di afferrare l’immagine, ci si rende conto che non c’è niente fuorché aria.

La tridimensionalità non è il solo aspetto significativo dell’ologramma. Se un pezzo di pellicola sensibile olografica con impressa, ad esempio, l’immagine di una mela, viene tagliata a metà e poi illuminata con una luce laser, ognuna delle due metà contiene ancora tutta l’immagine della mela! Anche continuando a dividere le metà in parti sempre più piccole, in ogni pezzo si continua a poter ricostruire l’intera mela, anche se l’immagine diventa via via più confusa.
A differenza della fotografia normale, ogni piccolo pezzo della pellicola olografica contiene l’informazione dell’intera immagine.
Era proprio questo a rendere Pribram così eccitato! Finalmente poteva cominciare a comprendere la maniera in cui la memoria si distribuisce nel cervello!
Se un pezzettino di pellicola olografica è in grado di trattenere l’informazione dell’intera immagine, allora, pensava Pribram, anche ogni parte del cervello è in grado di trattenere l’informazione che può richiamare un’ intero ricordo.

La memoria non è la sola cosa che il nostro cervello processa in modo olografico: anche la vista è olografica!
Una delle scoperte di Lashley è che i centri visivi del cervello resistono in modo sorprendente a rimozioni chirurgiche: nel ratto, persino rimuovendo il 90% della corteccia visiva (la parte del cervello che riceve ed interpreta ciò che vede l’occhio), scoprì che l’animale poteva ancora compiere attività che richiedevano abilità visive evolute.
All’epoca, si pensava che ci fosse una corrispondenza 1:1 tra l’immagine vista dall’occhio ed il modo in cui questa immagine viene rappresentata nel cervello. In altre parole, se una persona guardava un quadrato disegnato sulla carta, si credeva che l’attività elettrica nella corteccia assumesse essa stessa una forma quadrata.
Sebbene le scoperte di Lashley sembrassero seppellire per sempre questa interpretazione, Pribram non era ancora soddisfatto: a Yale escogitò degli esperimenti per misurare con cura l’attività elettrica nel cervello delle scimmie, mentre compivano vari compiti visivi. Non solo confermò che non esiste assolutamente la corrispondenza 1:1, ma persino che non c’era nemmeno alcuno schema riconoscibile nel modo in cui gli elettrodi venivano attivati.

Pribram scrisse “Gli esperimenti sono incompatibile con l’interpretazione secondo cui una immagine di tipo fotografico viene proiettata sulla superficie della corteccia”.

Di nuovo, la resistenza della corteccia visiva alla rimozione chirurgica suggeriva che anche il senso della vista, esattamente come la memoria, è in qualche modo distribuito … Pribram, dopo aver preso conoscenza del procedimento olografico, parlò di “vista olografica”.

La natura dell’ologramma per cui “il tutto è in ogni sua parte” sembrava aprire alla spiegazione di come potesse essere rimossa una parte così enorme della corteccia, senza compromettere la vista. Se il cervello processa le immagini creando una qualche specie di ologramma interno, persino una piccola parte dell’ologramma potrebbe riuscire a ricostruire l’intera immagine che l’occhio ha davanti a sé.

Ma che genere di attività “ondulatoria” può mai compiere il cervello, per creare questi ologrammi interni?
Pribram concepì una risposta: era noto che le comunicazioni elettriche che avvengono tra i neuroni del cervello non succedono da sole; i neuroni posseggono ramificazioni, e quando il segnale elettrico raggiunge la fine di uno di questi rami, si irraggia all’esterno, come le onde in uno stagno. Siccome i neuroni sono compressi in uno spazio molto ridotto, si crea una espansione di queste onde – ed è un fenomeno ondulatorio – che continuano tra di loro ad incrociarsi, creando, secondo Pribram, un caleidoscopio quasi infinito di effetti di interferenza … potrebbe essere questo a dare al cervello le sue proprietà olografiche.

Osserva Pribram: “L’ologramma è lì da sempre, nella natura ondulatoria delle connessioni neurali, semplicemente non siamo mai stati abbastanza svegli da rendercene conto”.