IBOGA
“I Bwiti
credono che prima della cerimonia il neofita non sia niente”, mi disse
Daniel Lieberman quel mio primo mattino in Gabon. “È solo tramite l’iniziazione che si diventa qualcosa”.
“E cosa si diventa?”, “Un
baanzi. Colui che conosce l’altro mondo, perché lo ha visto con i propri occhi”.
Per i bwti l’iboga è un’entità spirituale
supercosciente che guida il genere umano.
Il sacramento botanico
bwiti, la Tabernanthe Iboga, è un
arbusto commestibile che produce frutti arancioni insapore e appiccicosi. In
condizioni ottimali, l’iboga può crescere come albero di almeno dodici metri.
Il composto allucinogeno è concentrato nella scorza della radice, che viene
grattata via, fatta seccare e ridotta a una polvere di colore grigio.
Per uno straniero
proveniente dagli Stati Uniti, l’iniziazione bwiti costa 7,000,00$ compreso il
biglietto aereo, più il costo del rito e la percentuale per il botanico.
“Il Bwiti è come il Buddhismo, tutti possono abbracciarlo se vogliono
essere iniziati. La parola Bwiti significa semplicemente l’esperienza con la
pianta iboga, che è l’essenza dell’Amore”.
Non volevo le cose che
volevano gli altri, ma non sapevo come trovare quello di cui avevo bisogno.
Avevo bisogno di un
sollievo che andasse oltre la risata.
Viviamo in un mondo
sovraccarico di media e smog in cui ogni cosa ci distrae da qualsiasi altra.
Ralph
Waldo Emerson “perché non dovremmo godere anche di una
relazione originale con l’Universo?, perché non dovremmo avere una poesia e una
filosofia dell’intuizione e non della tradizione, e una religione che si riveli
a noi, e non soltanto la loro storia?”.
I miei genitori erano parte
della Beat Generation e del recrudescente Espressionismo Astratto degli anni’50
e ’60.
Una generazione più tardi,
vidi la bolla distruttiva del determinismo economico demolire i resti dalla
loro cultura liberale.
Sentivo che stavo
diventando un fantasma, un sopravvissuto senza corpo di qualche lontana epoca.
Al punto più basso, mi
tornarono in mente le illuminazioni clandestine ottenute da pezzi essiccati di
funghi masticabili e piccoli quadratini di carta che avevo mangiato negli
ultimi anni del collage.
Quello che ricordavo era lo
splendore sensoriale – l’espansione dei colori, i suoni, gli odori – con cui i
veli dell’astrazione sembravano cadere subito giù dalla mia mente. A quel tempo
i funghi trapassavano le mie sensazioni di alienazione postadolescenziale,
sebbene a volte ingigantissero le mie ansie più profonde.
L’acido temporaneamente spazzava
vi la mia identità.
Un anno dopo, provai la
droga della foresta amazzonica ayahuasca, la leggendaria sostanza,
conosciuta come yagé, che William Borroughs nei primi anni ’50 inseguì in tutto
il sud America, in cerca di una cura visionaria per la sua dipendenza da
eroina.
Calici della droga venivano
elargiti col contagocce a 200$ al bicchiere nel corso di una cerimonia in un
appartamento a downtown, organizzata da una coppia di californiani. Prima di
bere, ci venne dato un pannolino Adult Depends e un secchio di plastica per
vomitare. L’amara pozione mi procurò delle intuizioni e immagini sorprendenti,
rampicanti verdi smeraldo che si muovevano davanti a una cascata d’acqua, e ore
di nausea. Una donna gemette ed ebbe conati per ore mentre quegli sciamani New
Age si dimenavano intorno a lei con serpenti e piume. Sembrava che stesse
rivomitando il suo essere profondo. La sua condizione limitò il mio trip
interiore.
Il viaggio con l’ayahuasca,
sebbene intrigante, mi lasciò profondamente insoddisfatto. La mia abilità di
avere visioni sembrava estremamente misera.
In quanto testa dura, non
avevo la capacità di “allucinarmi”.
Guidammo fino al villaggio
del Re, lungo quaranta chilometri di strada polverosa e foresta coperta da
terra rossa lontano da Lambaréné.
Quando arrivammo, il Re ci
convocò al tempio. Voleva altri soldi, ma avevamo già consegnato 600$ pattuiti
e così iniziò a strillare.
La situazione sembrava
fuori controllo, non ci sentivamo sicuri … infine venne deciso che
l’iniziazione sarebbe andata avanti nonostante li avessimo imbrogliati, ma alla
fine del rituale, il Re non ci avrebbe dato l’olio speciale che conferiva una
conoscenza più profonda delle nostre visioni per tutto l’anno.
Quando giunse la notte, gli
uomini del Bwiti mi si avvicinarono ed io mi sentivo imbarazzato: sapevo che
per loro non ero tanto una persona quanto un archetipo, ero un fantasma bianco,
un pallido intruso dal mondo coloniale che cercava di ritornare alla sorgente
spirituale.
Alcuni uomini reggevano
delle torce, altri suonavano i tamburi e i sonagli e i corni in una marcia
sinistramente divertente. Moutamba , avvolto in una pelle di leopardo, mi
ordinò di spogliarmi completamente e di entrare nel bel mezzo del torrente.
Mentre tremavo in quell’acqua gelida, il ragazzo che mi venne assegnato per
farmi da “padre bwiti” mi versò addosso del liquido saponoso, una medicina
protettiva dello Spirito. Poi mi spalmò una pasta rossa e ruvida sul torace e
la faccia. I Bwiti cantavano mentre indossavo l’uniforme da iniziazione, una
tunica rossa corta con strisce dorate di pelle di animale e anelli di
conchiglia intorno al petto e sugli avanbracci. Una piuma rossa era
attorcigliata nei miei capelli.
Era tempo di iniziare a
mangiare l’iboga.
Il Re sollevò l’albero di
plantago con due mani. Il mio padre bwiti mi portò cautamente questo sacramento
sotto gli sguardi degli altri. Guardai il frutto tenuto davanti alle mie
labbra: era stato aperto e riempito con grigi granellini di polvere di iboga.
Togliendomi i vestiti e indossando la veste rossa da iniziato, ero
simbolicamente morto. Dopo aver mangiato la polvere essiccata, sarei rinato.
La polvere sapeva di
segnatura corretta con l’acido di batteria, era totalmente rivoltante, la
sostanza più amara che abbia mai messo in bocca. Ancora peggio, il plantago era
secco e duro e ogni morso richiedeva una lunga masticazione. La mia lingua si
seccò e si gonfiò, quasi soffocai nel tentativo di rigettare quella roba
schifosa. Dopo aver finito il plantago, mi vennero dati un altro po’ di
cucchiai di quella droga mista a miele. Lo sciamano annuiva incoraggiandomi.
Lottavo per tenere quella cosa in bocca.
“Il giornalista ha mangiato molto, molto”, disse.
Tornammo al villaggio. Le
mie gambe erano diventate gommose e avevo la nausea. Nel cortile principale,
alcuni uomini si sedettero attorno a me, suonando i tamburi.
Mi misero un mazzo di
foglie nella mano destra e una striscia di cardo selvatico nella sinistra
dicendomi di agitarle entrambi al ritmo della musica. Questo gesto meccanico mi
avrebbe aiutato a rimanere fermo durante le visioni. Ogni volta che smettevo di
scuotere i sonagli, un uomo della tribù accorreva e mi costringeva a
continuare.
Mi fecero mangiare altra
iboga e mi portarono, tremolante, nel tempio illuminato dalle torce. Ero
instabile, confuso. Mi fecero sedere da solo al centro, di fronte al mio specchio,
circondato da foglie di felce e statuine incise. Il Re e i vecchi della tribù
sedevano alla mia sinistra e il resto della tribù su panche alla mia destra,
forse trenta persona in tutto.
Molto tempo trascorso, ma
non succedeva nulla.
Nello specchio vedevo la
mia faccia che cambiava forma. Sembrava che invecchiassi, rughe e linee si
spandevano sulla mia pelle. Poi ritornai più giovane. Questi effetti erano
fluttuanti e duravano pochi istanti. Poi tornavo a rimirare me stesso, una
pallida faccia sconcertata con occhiali di tartaruga e una tunica tribale.
“Non vedo niente”, dissi agli impazienti uomini della tribù che mi
guardavano.
Infine, da un angolo
dell’occhio, ebbi la mia prima visione: una grande statua di legno, una figura
simile a un golem scuro e senza volto che emergeva da ruvidi ceppi, camminava
per la stanza e si sedeva sulla panca. Incrociando le gambe, si sporse in
avanti come per guardarmi con interesse.
La visione fu molto rapida.
Sembrava totalmente reale. Un momento dopo, dalla superficie crepata e
scheggiata dello specchio venne fuori un piccolo schermo. Su di esso vedevo,
attraverso la finestra, il mio appartamento di Manhattan. Attraverso le piante
aeree, guardavo il mio salone vuoto. Poi vidi una folla attraversare un
incrocio su Broadway, gli ombrelli aperti per la pioggia. Le immagini erano
impressioni fantasma con ombre di grigio, come quelle di un vecchio film; erano
chiare, totalmente distinguibili, ma solo per un attimo. Quando provavo a
studiarle tremolavano e svanivano.
“Se vedi una finestra devi provare ad attraversarla”, mi istruì il
Re attraverso il traduttore, “e se
incontri qualcuno devi provare a parlargli. Forse hanno un messaggio per te,
qualche informazione”.
I Bwiti insistevano perché
riportassi ad alta voce quelle che vedevo, ma non mi sentivo pronto per una
cosa simile. Mi ero fatto l’idea che ciò che vedevo fosse solo di mio interesse,
ma i Bwiti non approvavano le mi idee occidentali di privacy. “Tutto ciò che vedi
deve essere condiviso”, mi esortò il Re, “potresti avere un messaggio per la tribù, alcune informazioni”.
Nel mio stato sconvolto,
avevo la lingua bloccata e percepivo la loro rigida disapprovazione del mio
silenzio.
Davanti ai miei occhi
passarono velocemente altre immagini – una composizione memento mori di
candele, teschi fiammeggianti e facce di goblin; dai confini della mia visione
ecco figure di donne vestite di nero che allungavano verso di me le loro lunghe
braccia bianche – solo che quando provai a parlare di loro scomparvero.
Il Re riprese a strillare:
“Quando inizierà a vedere i favolosi
castelli? Le città degli spiriti”, chiese esasperato. All’improvviso uscì
dalla stanza. “credo che continueranno a
farti mangiare iboga finché non inizierai a parlare”, mi sussurrò
Lieberman.
Ero fradicio di sudore. La
mia testa sembrava un pallone, svariate volte più grande del normale. Mi
chiedevo se stavo per morire. Ebbi conati e vomitai della melma verde nel
secchio.
Quando mi sentii un po’
meglio, i Bwiti mi riportarono nel tempio. Mi misero su un materasso poggiato
sulla dura terra e mi diedero istruzioni su come sdraiarmi.
Gli uomini della tribù
ripresero a suonare i tamburi e a cantare. Il terrificante suono riempì il
tempio, rimbombando sulle pareti del mio cranio. Provavo un’incredibile
sensazione di fallimento e nello stesso tempo disprezzavo la mia stupidità: chi
ero per provare ad entrare nel mondo spirituale africano? Sentivo di poter
comprendere che il Re mi stava deridendo, si prendeva gioco del mio corpo,
delle mie visioni fallimentari, delle mie debolezze; diverse volte avevo
chiesto una coperta e un cuscino, ma i Bwiti avevano respinto le mie richieste.
“Gli stranieri dicono di volere la vera iniziazione Bwiti”, sembrava
dire il Re con un ghigno. “Ebbene, questo
è ciò che vogliono. Ma ora si lamentano, vogliono una coperta, vogliono un
cuscino, il vero Bwiti non vuole alcuna comodità”.
Alla fine il Re smise di
prendermi in giro. La musica impossibilmente bella, canti polirtmici,
ricominciò.
Con gli occhi chiusi vidi
luminosi disegni colorati, forme come piante a spirale e geometrie danzanti che
turbinavano a ritmo di musica. Caddi in trance, fluttuando insieme ai canti
bwiti. Venni trasportato in un nuova fase del viaggio.
Pezzo dopo pezzo, nella mia
mente iniziò ad emergere il disegno del mio passato. Per le ore successive, mi
dimenticai degli uomini della tribù che mi guardavano. Ero testimone di un
“teatro della memoria”, un replay scrupoloso di tutte le forze che mi avevano
modellato nella persona che ero. Rividi i momenti della mia infanzia: la
separazione dei miei, l’assenza di mio padre nella mia fanciullezza, l’impronta
della solitudine e della depressione di mia madre, la mia solitudine e l’amore
per la lettura, i tanti mesi in un letto d’ospedale, alle barocche sorgenti
degli incubi e della fantasie di bambino, la paura originaria dei mostri sotto
il letto, la grotta delle tenebre dentro l’armadio.
Vidi le desolate, disperate
parti della mia vita e i lampi di potere e inventiva che pure mi appartenevano.
Separato da me stesso, eppur racchiuso dentro me stesso, seguivo le tracce
dell’essere che ero stato, che mi venne dato, mentre si srotolavano nel tempo.
L’estensione del Sé, mi
resi conto fu un processo naturale, simile allo sbocciare di una pianta, ma
mentre la pianta si estende verso il Sole per tutta la sua vita, gli esseri
umani evolvono internamente. Cresciamo e ci sviluppiamo, o ci rattrappiamo e
regrediamo, man mano che reagiamo alle forze che ci schiacciano. La nostra
crescita si svolge nel regno invisibile del nostro spazio mentale, e il sole
irraggiungibile verso cui tendiamo è la conoscenza, del Sé e dell’Universo.
Permettendomi di percepire
la forma del mio Sé passato, l’iboga sembrò anche liberarmi dal fardello di
quello stesso passato. L’azione della droga, come avevo sentito dalle
descrizioni ma senza crederci, effettivamente fu pari a dieci anni di
psicoanalisi racchiusi in un’interminabile notte.
Attraverso l’iboga,
riconobbi il mio Io esistente come prodotto di tutte le forze fisiche e
psichiche che avevano agito su di me. Eppure sembrava esserci qualcosa al di là
di tutto questo, qualcosa che era “mio”, un’energia del mio destino biografico
proiettata fuori. Quell’energia era il Sé, e la tremenda capacità del Sé di straformarsi.
Il viaggio divenne un
ciclone cinematico, immagini vorticanti e scene ad alta velocità. Comparvero
una serie di case sconosciute, grigi paesaggi suburbani fantasma che non avevo
mai visto prima. Mentre svanivano mi ci persi dentro.
Poi apparizioni di vecchie
ragazze disperse come nebbia, i loro corpi che danzavano allontanandosi
nell’etere. Vidi l’insegna di un ristorante, il Teacher’s Too, un ritrovo
d’infanzia.
Il canto e il suono
divennero assordanti in quel tempio dal soffitto basso. Mel mio stato alterato
i canti suonavano fantastici nella loro bellezza. Realizzai la profondità del
legame della tribù con questa pianta che mostrava loro le cose.
Più tardi i Bwiti ci fecero
alzare e ballare con loro.
Sapevo, a livello
intellettivo, che i gruppi tribali attribuiscono uno Spirito e una sensibilità
alle piante.
Può una pianta avere
un’anima o un’intelligenza? Prima di allora non avevo mai preso sul serio
questa ipotesi.
Quando il rituale terminò
io e l’analista barcollavamo storditi, ma il Re iniziò immediatamente a
strillarci: “Ora siete stati iniziati, e
mi farete regali in soldi”.
Decidemmo di fuggire e
prenotammo un hotel a Lambaréné.
Convincemmo uno dei figli
del Re a portarci all’Ogobue Palace, un placido hotel con vista sul fiume. Nella
mia stanza, mi resi conto che il viaggio con l’iboga stava proseguendo.
Goutarel credeva anche che le visioni dell’iboga
differivano nei soggetti rispetto a quelle indotte dell’LSD. Le allucinazioni
da LSD “appartengono a una dimensiona angelica ed elevata di sensazioni
estetiche”. La dimensione dell’ibogaian, al contrario, “è quella del mondo
sotterraneo di Freud, dell’impulso animale e della regressione”. Similmente, Claudio Naranjo, uno psichiatra cileno
che ha utilizzato l’ibogaina in terapia, ha messo a confronto le visioni
dell’iboga con quelle prodotte da armalina e armina, i composti psicoattivi
dell’ayahuasca. Ha scoperto, che l’ibogaina, “che la qualità della fantasia è
generalmente più personale e riguarda il soggetto stesso, i suoi genitori e le
altre persone per lui significative”.
Goutarel: “Tuttavia, il fatto è che nonostante
l’ibogaina sia considerata come un allucinogeno (oneirofrenico), non produce
alcuna dipendenza ed è anzi stato dimostrato che elimina la dipendenza dagli
oppiacei, le anfetamine, la cocaina, l’LSD e anche dall’alcool e dal tabacco”.
L’ibogaina ha fatto una
breve apparizione nel commercio di droga sotterraneo degli anni ’60, poi è
svanita. Scrive Goutarel: “L’iboagina è
sparita improvvisamente sul mercato e sembra che gli spacciatori si siano resi
subito conto del fatto che il suo uso li avrebbe privati di una parte della
clientela”.
La dottoressa Deborah Mash dell’Università di Miami è
la sola ricercatrice autorizzata dal governo che attualmente sta studiando
l’ibogaina come possibile trattamento per la dipendenza.
La Mash e i suoi
collaboratori hanno stilato la lista degli effetti di una singola dose di
ibogaina, seguita da una terapia post-trattamento, effettuata su 27
tossicodipendenti. Hanno concluso in tal modo:
“Dopo il trattamento con l’ibogaina, i soggetti dipendenti dagli
oppiacei erano meno propensi ad aspettarsi risultati positivi dall’uso
dell’eroina (o altri oppiacei), meno propensi a credere che l’uso di eroina ( o
dell’oppio) alleviasse la disforia da privazione e più propensi a credere nel
loro controllo dall’aspettarsi o fermare il loro uso di droga. Il trattamento
con l’ibogaina ha anche diminuito il desiderio dei partecipanti e l’intenzione
di far uso di eroina”.
Attualmente gli scienziati
sanno che qualcosa nell’iboga influenza il cervello, ma non molto. La molecola
di ibogaina è un alcaloide estremamente complesso (il minaccioso nome chimico è
3-metil5-etilpiridina).
Come la maggior parte delle
droghe psichedeliche conosciute, ha una struttura simile al neurotrasmettitore
della serotonina, che si pensa metta in moto molte funzioni e aiuti a regolare
l’informazione sensoriale. Anche la psilocibina, la mescalina e l’LSD sono
alcaloidi che assomigliano alla serotonina. L’allucinogeno superpotente DMT (NN-dimetiltriptamina) è un parente
molto prossimo alla serotonina, ha una struttura molecolare simile con la
differenza di due gruppi di metil. La serotonina selettiva riattiva gli
inibitori (SSRIs), che gli antidepressivi Prozac e Zolotof, e limita le
oscillazioni dell’umore modulando il rilascio della serotonina.
Poiché sono così
intimamente connesse alla serotonina, le sostanze psichedeliche si legano
temporaneamente a molti degli stessi recettori come la serotonina e simili
neurotrasmettitori, e quella è la causa principale della loro attività.
Goutarel scrisse: “L’ibogaina inibisce l’ossidazione della
serotonina, e catalizza quella delle catecolamine tramite un MAO (monoammino
ossidasi), la ceruloplasmina”.
La monoammino ossidasi è un
enzima dello stomaco che rende molti composti potenzialmente influenti sulla
mente inattivi prima che raggiungano il cervello. L’iboagina, come la
psichedelica ayahuasca, contiene un inibitore MAO naturale. La pozione di
ayahuasca, tuttavia, è una mistura di due piante con differenti proprietà. Da
sola, la pianta dell’iboga è un fattore chimico straordinario.
Attualmente, nessuna teoria
scientifica spiega come l’iboga si prenda il disturbo di creare alcaloidi
psicoattivi. Per i botanici i composti non sembrano conferire alcun beneficio
evolutivo e, per essere prodotti, richiedono una grande quantità di sforzi e di
tempo.
Quindi perché le piante
producono alcaloidi non si sa: forse per tenere lontane le formiche, qualcuno
dice che gli alcaloidi sono la discarica dei rifiuti dell’azoto, ma perché
produrre un composto che impiega due anni per sintetizzare?
La molecola di ibogaina è
particolarmente complessa, più della maggior parte delle sostanze psichedeliche.
È così articolata che non può essere sintetizzata in un laboratorio. Oltre ad
essere un “potente composto serotonergico”, che lavora cioè nei punti dei
recettori della serotonina, l’ibogaina sembra anche interagire con la dopamina,
un altro neurotrasmettitore, che regola l’esperienza corporea del piacere ed è
associata ai bisogni della dipendenza.
Nel 1944, il New York Times
Magazine pubblicò un articolo sull’ibogaina pieno di interessanti informazioni
ma che risultò disastroso per il futuro dell’ibogaina come trattamento
principale per la dipendenza da droga. L’articolo seguiva un programma
sperimentale di cura con l’ibogaina fatto in Olanda. Durante la visita del
giornalista in quel paese, il programma venne interrotto a causa della morte di
una giovane tossicodipendente. La ragazza probabilmente aveva continuato a
prendere eroina poco prima dell’inizio del trattamento con l’ibogaina.
L’ibogaina sembra aumentare il maniera rilevante la potenza di tutte le droghe
presenti nel flusso sanguigno. Per i tossicodipendenti che cercano di
utilizzare l’ibogaina, è prima necessario un intero giorno di
disintossicazione, proprio per evitare una reazione tossica.
Ma come fa l’ibogiana a
interrompere la dipendenza? Ha fatto notare il Times: “L’eroina e la cocaina normalmente stimolano il rilascio della dopamina
nel “centro del piacere” del cervello, producendo sentimenti di euforia.
L’ibogaina sembra interrompere questo meccanismo, bloccando alcuni rilasci e
stimolandone altri”.
Questo potrebbe
temporaneamente impedire gli effetti della droga ma l’articolo proseguiva
chiedendosi: “Come può l’ibogaina
influenzare il comportamento molto tempo dopo la sua scomparsa dal flusso
sanguigno?”.
Un ipotesi è che l’ibogaina
ristabilisce un equilibrio tra i due emisferi del cervello.
Il dott. Carl Anderson del McLean Hospital, in
Virginia, suggerisce che, “gli scontri
interemisferici, principalmente come risultato di abusi subiti dal bambino,
possono rappresentare la causa psicologica fondamentale per la dipendenza dalla
droga”. Probabilmente questa è un’esagerazione. Tuttavia, le disparità fra
il cervello sinistro e destro sconvolgono il sonno REM che, come nota Anderson,
è “essenziale per la regolazione emotiva,
l’apprendimento e il consolidamento della memoria”.
L’iboga accede al ciclo REM
in modo potente e, a causa di questo, la maggior parte delle persone ha bisogno
di meno sonno per settimane o perfino mesi dopo una dose forte e prolungata.
Incontrammo un giovane
sciamano, Papa Simone e Liberman gli chiese di organizzare un’altra cerimonia
notturna per noi con il suo villaggio bwiti, un rituale di chiusura per donarci
l’olio che il Re aveva tenuto per sé. Durante quella notte di balli,
percussioni e canti, vidi “l’essenza dell’Amore”.
Per la cerimonia vollero
farci mangiare di nuovo l’iboga, ma non riuscii a ingoiare più di un cucchiaio
di scorza, che non fu sufficiente a provocare visioni. La tribù di Papa Simone
comprendeva un grande e sorridente omaccione che indossava un perizoma rosso.
Verso il mattino disse che vedeva uno Spirito che roteava sul punto in cui ero
seduto, e specificò che era quello di mia nonna, da parte di madre. “Lei ti amava molto, ma ora è morta e non
vuole lasciarti andare, il suo Spirito pende su di te. Ti impedisce di avere
visioni, e di visitare l’altro mondo”.
Mesi dopo ebbi un incubi
vivido su mia nonna e all’alba mi svegliai per scriverlo. Nel sogno mia nonna
mi chiamava. Stava in casa mia, puliva e cercava in tutti i miei armadi, i
cassetti e sul mio tavolo “i documenti” o “la questione”. Riuscivo a vederla
nel mi appartamento, una figura antica, confusa e sconvolta che rovistava nelle
mie cose. Io ero furioso con lei, urlavo al telefono quasi con fervore
disumano, ordinandole di lasciare stare le mie cose, di andare via, a riposarsi,
guardare la televisione e non cercare più quei documenti. Lei allora si
ritrasse. La sua voce era così reale, vibrante.
Nei giorni successivi, mi
sentii purificato, come se il mio Spirito, acquisendo forza, l’avesse scacciata
dalla casa. Sentivo come se mi si fosse sollevato un velo nero.
L’iboga non mi ha mostrato
molto dell’universo spirituale africano, piuttosto mi ha svelato il mio mondo
interiore, quel complesso assemblaggio di abitudini, umori, eventi passati e
relazioni, come una costellazione ammirata attraverso un telescopio.
Dopo aver scoperto la
psilocibina, Wasson proseguì il suo
lavoro di ricercatore sui funghi in tutto il mondo. Egli scoprì tracce di
funghi psichedelici o enteogenici (“Che manifestavano Dio”) nella genesi, nei
Misteri Eleusini, e nel testo sacro indù, i Rig Veda. Nonostante le rivelazioni
avute fra i Mazatechi, egli si convinse che l’enteogeno essenziale del mondo
antico era il Soma, l’Amanita muscaria,
che contiene l’agente psicoattivo chiamato muscarina e non la psilocibina.
Gli scritti di Benjamin passano dagli estremi di
rivoluzione e rivelazione. Egli vedeva il pensare come una forma di
intossicazione. Riconosceva che la ricerca con la droga, o quella
dell’esperienza visionaria, poteva essere un’estensione di una ricerca
intellettuale e razionale: “Le
dialettiche dell’intossicazione sono in effetti curiose”, scrisse. “Che forse tutta l’estasi di un mondo non
umilia la sobrietà in questo complementare ad essa?”. Pensare sotto
l’influenza dell’hashish era come srotolare un rocchetto di filo attraverso un
labirinto: “Andiamo avanti; ma così facendo non solo scopriamo le svolte e le
anse della caverna, ma godiamo anche del piacere di questa scoperta sullo
sfondo dell’altra, ritmica gioia del dipanarsi del filo”.
Per Banjamin il vero
significato della Prima Guerra Mondiale era “un tentativo di una nuova e inaudita mescolanza con le energie cosmiche”.
Era preoccupato del modo in
cui l’alienazione del genere umano da se stesso stesse diventando più profonda,
“a un tale livello da poter fare
esperienza della propria distruzione come un piacere estetico di prim’ordine”.
Egli vide che nessuna
rivoluzione poteva avere successo a meno che non trasformasse il regno
interiore del pensiero – il significato della percezione, la relazione dei
sensi con il mondo fisico – così come le relazioni economiche. Era sempre
attento a scovare l’anima del rituale primitivo e della credenza magica
nascosti all’interno del processi apparentemente “razionali” della modernità.
Per molte migliaia di anni,
la conoscenza diretta del sacro era una parte universale e naturale
dell’esistenza umana, mentre oggi rimane nelle culture tribali. Con la crescita
dello stato moderno e della chiesa, l’interazione con le realtà mistiche venne
negata alle masse ed esplicitamente demonizzata. La comunione col sacro era
riservata ai preti. Durante l’inquisizione, scherzare con gli Spiriti della
natura e contattare le anime dei morti divenne eresia. La punizione per tali
reali era severissima.
Il processo dialettico che creò
la mentalità possessiva del capitalista e lo sguardo “razionale” del tecnocrate
richiesero la distruzione delle vestigia premoderne delle credenze comuni e
animistiche.
Questa distruzione era
parte del processo che Karl Marx definì di alienazione di tutti i nostri sensi
fisici e intellettuali in uno: il senso del possesso. Naturalmente, “il senso
del possesso” non è davvero un senso, è un’illusione di appagamento che sembra
estendersi al di fuori del Sé.
Nel suo libro Mito e significato. Cinque conversazioni
radiofoniche, Il Saggiatore, Lévi-Strauss
ammise il suo shock iniziale quando apprese che gli uomini delle tribù native
americane erano capaci di vedere il pianeta Venere a occhio nudo di giorno.
Abbiamo sacrificato le
nostre capacità percettive in favore di altre abilità mentali, come
concentrarsi su uno schermo di computer mentre stiamo seduti in una posizione
per molte per in tensione, oppure bloccare multipli livelli di coscienza mentre
guidiamo la macchina nel traffico intenso. In altre parole, veniamo cresciuti
in un sistema che ci insegna a posporre, differire ed eliminare la maggior
parte delle informazioni sensoriali in favore di una futura ricompensa. Viviamo
in un loop a reazione di perpetuo rimando. Per la maggior parte, non siamo
neanche consapevoli di quel che abbiamo perso.
La consapevolezza moderna è
risvegliata al materialismo, all’incorporeo “senso del possesso”, alla visione
meccanicistica e al metodo scientifico dell’osservazione empirica. La sua
antitesi è la mente arcaica, risvegliata sul mondo dei sensi, a contatto
ravvicinato con il sacro rivelato attraverso il mondo naturale, i sogni e le
visioni.
Lo sciamanismo arcaico è
una tecnica per l’esplorazione della verità “soggettiva” della mente attraverso
la visione, il sogno, il mito e l’interazione con la Natura. Secondo la
psichiatria contemporanea, i disordini mentali hanno cause fisiche che possono
essere curate, fino a un certo punto, con medicine appropriate. Dalla prospettiva
sciamanica, non solo i disordini mentali ma anche quelli fisici hanno cause non
fisiche, spirituali. Che devono essere affrontate se si vuole che una cura sia
efficace.
Le piante visionarie sono
gli Spiriti Guida delle culture arcaiche. Risvegliano la mente ad altri livelli
di consapevolezza. Nel mondo moderno, le sostanze che derivano da queste piante
continuano a essere demonizzate, ridicolizzate e soprattutto soppresse. Nei
primi anni ’60 quando un recensore ridusse la fascinazione di Aldous Huxley per le droghe
psichedeliche a un “divertimento coi funghi”, Huxley replicò in termini
caustici: “Cos’è meglio, il divertimento
coi i funghi o l’Idiozia con l’Ideologia, farsi la guerra per le parole,
ritrovarsi coi misfatti di domani per via dei falsi credo di ieri?”.
Le sostanze psichedeliche,
i catalizzatori chimici che aprono i mondi interiori, rimangono banditi e
incompresi perché occupano quel punto di contraddizione diretta e possibile
sintesi fra il materialismo fondato sul cervello e lo Sciamanesimo orientato allo
Spirito.
Le opere di Shakespeare esplorano il legame fra il
sogno e la veglia. Anche quando sono svegli, i suoi personaggi si comportamento
spesso come fossero ipnotizzati. È facile dimenticarsi che, mentre siamo
svegli, siamo costantemente sommersi in differenti livelli di coscienza, in
stato semicoscienti in cui sogniamo a occhi aperti, spaziamo o guardiamo
pubblicità; ci concentriamo senza attenzione, siamo “distratti dalla
distrazione”.
LA MEDICINA
“Lo scopo di ingerire – yagé – è di tornare all’utero … dove l’individuo vede le divinità tribali, la creazione dell’Universo e dell’umanità, la prima coppia umana, la creazione degli animali e la fondazione dell’ordine sociale” (Gerardo Reichel-Dolmatoff – Flesh of the Gods)
Personalmente penso di avere avuto un’intuizione riguardo a ciò che fosse l’ayahuasca, ancora prima di provarla. In Amazzonia, lo yagé è la “medicina”, la “purga”, “il vino delle anime”, “la fune della morte”. È la sostanza che rivela la cosmologia degli Indios dell’Amazzonia, la sorgente della saggezza indigena. Gli sciamani dell’Amazzonia dicono che tutta la loro conoscenza, delle piante e del mondo spirituale, deriva dall’ayahuasca.
Viviamo in una cultura in cui ogni cosa è progettata per il nostro confort o intrattenimento ma nulla ci soddisfa.
Nel nostro profondo, rimaniamo insaziabili, costantemente a caccia di nuove comodità e sensazioni piacevoli che riempiono il vuoto. “La vita sa di buono”, proclama la pubblicità della Coca Cola. Lo yagé, al contrario, fa estremamente schifo. È un intruglio amaro, fatto con la scorza di un rampicante e le foglie di un arbusto. Il suo sapore è come l’essenza distillata di bosco marcio. I bevitori di yagé vomitano e valla al bagno, tremano e sudano, e contemporaneamente ricevono visioni oltraggiosamente belle. La pozione è un antidoto – seguendo Benjamin, sarei tentato di dire una cura dialettica – per la nostra attuale condizione. Come mi ha detto uno sciamano hippy al Burning Man: “La medicina dell’uomo bianco all’inizio ti fa sentire bene, e dopo male. La medicina degli indios prima ti fa sentire male, e poi bene”.
Gli indios rispettano l’ayahuasca per i suoi poteri curativi. La purga da tossine e parassiti è parte del processo di guarigione. Mi sentivo come se un’intelligenza mi stesse scorrendo attraverso, esaminando i miei organi, nervi e processi cellulari, facendo leggeri aggiustamenti. Era come se fossi un computer e l’ayahuasca il programma che faceva scansioni e riparazioni. Una volta compiuto il lavoro, vomitai. Il vomito fu come il beep alla fine dell’esecuzione del programma.
I miei pensieri si appisolarono. Guardai una scena che si svolse all’interno della mia mente. Particelle, come piccoli bagliori di luce, si univano all’interno di nubi che fluttuavano verso l’alto; una volta salite, l’attenzione della mia consapevolezza passò improvvisamente a un altro soggetto. Mi resi conto che stavo guardando un modello di pensiero, del processo neurochimico del mio subconscio che generava pensieri. Queste nubi erano concentrazioni sinaptiche, reti neurali; una dopo l’altra fluttuavano verso la superficie della mia coscienza. Quando l’informazione aveva raggiunto una densità sufficiente “mi” sarebbe stata presentata una nuova percezione.
Questa visione rappresentò una piccola rivelazione. Mi resi conto che la maggior parte dei pensieri sono accadimenti impersonali, come macchine autoassemblanti. A meno che non ci alleniamo, i pensieri che ci passano per la testa hanno poco a che fare con la nostra volontà. Per la maggior parte del tempo, pensare è un processo autonomo, qualcosa che accade fuori dal nostro controllo.
L’ayahuasca è un composto chimico della giungla altamente sofisticato. La bevanda generalmente è composta di due ingredienti, la scorza del rampicante ayahuasca (il Banisteriopsis caapi, che cresce in spesse spirali a forma di doppia elica sugli alberi della foresta pluviale) e le foglie di Psychotria viridis o di qualche altra piante. Il rampicante contiene un tipo di droghe psicoattive e sedative chiamate beta-carboline, che comprendono armina e armalina. Le foglie possiedono DMT (dimetiltriptamina), un allucinogeno molto potente che viene anche prodotto nel nostro corpo umano, ritrovato alla base della spina dorsale e del cervello.
Nonostante sia potente quando viene estratta e poi fumata, la DMT non è attiva oralmente. Gli enzimi di monoaminossidasi (MAO) nell’intestino la abbattono prima che raggiunga il cervello. Se ne possono mangiare grandi quantità senza sortirne alcun effetto.
Tuttavia, le beta-carboline nel rampicante sono naturali inibitori MAO, il che significa che consentono alla DMT di funzionare.
L’infuso di ayahuasca, secondo il Santo Daime, una religione brasiliana che contempla lo yagé come suo sacramento, è una combinazione della “forza” del rampicante e della “luce” delle foglie.
La DMT, fumata da sola, crea una rapida esperienza visionaria a ripetizione, un’immersione travolgente in un mondo estremamente alieno che dura meno di dieci minuti. Le beta-carboline, prese da sole, creano allucinazioni subdole e monocromatiche che risultano delicate, calde e umanizzate.
Un mio amico, dopo una forte dose, ha descritto la visione di facce materne compassionevoli che fluttuavano su di lui. Mescolate insieme nell’infuso di ayahuasca, le beta-carboline sembrano avere un effetto pacificante e umanizzante sulle visioni della DMT, che agiscono come interfaccia ed estendono l’esperienza da qualche minuto a poche ore.
Non si sa come gli indios, che vivono fra centinaia di migliaia di piante nella foresta, abbiano imparato a combinare questi ingredienti botanici, che generalmente vengono cotti insieme per alcune ore. Gli indios sostengono che è stato il rampicante ayahuasca a insegnare loro come fare.
Negli ultimi decenni, sono state ritrovate molte altre piante con i composti chimici identici, a volte con quantità molto più concentrate. I botanici hanno scoperto il DMT; in particolare, in un’ampia varietà di flora, comprese alcune erbe comuni. Il mio infuso era ricavato dal DMT rossiccio contenete la scorza della Mimosa ostilis e un estratto di polvere nera di Ruta Siriana (Peganum harmala), una pianta del Vicino Oriente che producer una mistura di beta-carboline, come il vino di ayahuasca. La Ruta Siriana ha una storia antica di utilizzo rituale nel Vicino Oriente.
Alcuni ricercatori hanno suggerito che le allucinazioni con motivi gemetrici rossicci provocati ingerendo la Ruta Siriana potrebbero essere l’origine storica dei disegni sui tappeti arabi, come pure la fonte del mito arabo dei tappeti volanti.
Seguii le ricette di Jonathan Ott, il cui libro Ayahuasca Analogues descrive il modo in cui produrre i composti di ayahuasca utilizzando piante da ogni emisfero.
Al contrario dell’LSD o dei funghi o dell’ecstasy, lo yagé non può essere mercificato o consumato per svago: la sua gnosi va guadagnata.
Nell’ottobre del 2000 feci visita agli indios Secoya, una piccola tribù di 750 persone nell’Amazzonia ecuadoregna.
“La cultura dei Secoya è basata sulla comunione con il popolo del cielo che vive lungo il fiume e nel cielo”, ha detto Jonathon, l’etnobotanico che ha organizzato il mio viaggio. “Bevono lo yagé per vederli”.
Negli Stati Uniti e in Europa, gli sciamani sono stati rivalutati come figure eroiche dagli antropologi, da avatar psichedelici come Terence McKenna e populisti New Age.
Mas il fatto è che l’ambiguità aleggia sullo Sciamanesimo, laddove appare. I Poteri magici acquisiti attraverso l’uso disciplinato dell’ayahuasca possono essere rivolti al bene o al male. The Yagé Drinker è il titolo dell’autobiografia del famoso sciamano secoya Ferdinando Payaguaje, redatta con interviste rilasciate si suoi nipoti. Payaguaje parla della tentazione della stregoneria: “Alcune persone bevono yagé solo per raggiungere quel punto di potere in cui si arriva alla stregoneria; con queste arti magiche, possono uccidere una persona. Uno sforzo ancora maggiore e un ulteriore consumo di yagé sono necessari per raggiungere un livello più alto, dove si ottiene accesso alle visioni e ai poteri della guarigione”.
Micheal Harner, studiando lo Sciamanesimo degli indios Jivaro dell’Amazzoni, ha notato che gli sciamani Jivaro padroneggiano strali magici, tsentsak, che potevano essere utilizzati per curare o uccidere. I Jivaro, come la maggior parte dei gruppi tribali, vivevano costantemente terrorizzati dalla stregoneria. La stregoneria è l’inevitabile lato oscuro dello Sciamanesimo.
Gli occidentali che hanno riscoperto la Magia e gli Spiriti come fatti concreti dell’esistenza umana, trasformati nel loro profondo essere interiore dalla conoscenza, desiderano reintrodurre queste forze nel mondo contemporaneo. Eppure queste forze elementali non possono essere separate dall’ambiguità e dal pericolo. La Magia sfuma nella stregoneria e la comunicazione con la dimensione spirituale è molto prossima all’invocazione occulta.
L’ayahuasca, come ha fatto notare Ralph Metzner, è un “catalizzatore gnostico”. Apre le porte a quelle dimensioni occulte della realtà psichica che vengono vigorosamente negate dal moderno razionalismo.
Nel suo libro Il Serpente Cosmico, Jeremy Narby (giovane antropologo) tanta di interpretare le dimensioni visionarie aperte dall’ayahuasca in un modo che potrebbe adattarsi alla visione del mondo scientifico. Egli pensa che il tema del serpente, in particolare dei serpenti gemelli – il caduceo di Hermes e il simbolo della medicina occidentale – appaia negli arcaici miti della Creazione di tutto il mondo e nella Kundalini, il simbolo occulto indù della forza della vita. Narby collega il serpente o i serpenti attorcigliati, spesso visto sotto l’effetto dell’ayahuasca, alle spirali doppie e intrecciate del DNA. Teorizza che “nelle loro visioni gli sciamani riescono ad abbassare la loro coscienza a livello molecolare”. Gli sciamani, secondo Narby, ricevono immagini e informazioni dal DNA. Il DNA, una stringa di dati codificati simile a un serpente, è anche un cristallo aperiodico, largo quattro atomi, che emana fotoni.
“La rete globale della vita basata sul DNA emette onde radio ultra deboli, che al momento sono il limite minimo misurabile ma che non riusciamo comunque a percepire … nelle allucinazioni e nei sogni” scrive. Egli ipotizza che questa trasmissione sia la “gnosi vegetale” e la coscienza collettiva del mondo naturale.
“Secondo i reperti fossili, le specie sembrano apparire improvvisamente, pienamente formate e fornite di tutti i tipi di organi specializzati, e rimangono stabili per milioni di anni”.
Altri avatar psichedelici condividono il sospetto di Narby secondo cui quello che avviene durante l’evoluzione è più che la risultante di indefinite reazioni chimiche. Come ha scritto lo psichiatra pioniere dell’LSD Stanislav Grof: “La probabilità che l’intelligenza umana si sia sviluppata direttamente dalla melma chimica dell’oceano primordiale soltanto attraverso sequenze causali di causali processi meccanici è stata paragonata con precisione alla probabilità che un tornado che soffi attraverso una gigantesca discarica di rottami assembli per caso un jumbo 747”.
Narby è convinto che “in particolare il DNA e la natura in generale posseggano una mente. Questo contravviene il principio fondatore della biologia molecolare che rappresenta l’ortodossia corrente”. Egli sospetta che il succo di ayahuasca possa essere esattamente ciò che gli sciamani dicono che sia: lo Spirito senziente della Natura, la mente della foresta, che comunica direttamente con gli esseri umani attraverso questa interfaccia chimica.
L’esistenza di ciò che non può essere qualificato viene non solo ignorata ma negata in maniera veemente dagli scienziati occidentali che dimenticano come “l’assenza di prove non è la prova dell’assenza”.
La maggior parte degli antropologi crede che tutti i rituali religiosi funzionino per ordinare e unificare la società. Taussig con lo yagé scopre esattamente l’opposto: le cerimonie aprono uno spazio trascendente al caos. Per Taussig, lo Sciamanesimo conserva un luogo per la conoscenza in cui si può curare perché si pone al di fuori di ogni sistema. Le visioni con lo yagé aprono costellazioni di ignoto, significati ottusi e “incertezza e possibilità”.
Lo yagé spalanca una zona giocosa di “incertezze e possibilità” e nello stesso tempo sembra comunicare particolare messaggi sul mondo biologico, e spesso crea modelli specifici di processi naturali. Più delle altre sostanze psichedeliche, l’ayahuasca sembra dissolvere4 le rigide categorie che la moderna cultura ha eretto fra poesia e scienza, medicina e Magia, conoscenza del Sé e conoscenza dell’Universo.
Fonte: Manifestare la mente - Daniel Pinchbeck