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domenica 14 agosto 2016

Il dialogo strategico – Giorgio Nardone

Piuttosto che basarsi su una teoria della natura umana per “analizzare” il comportamento, il modello strategico di terapia si occupa del modo in cui l’uomo percepisce e gestisce la propria realtà attraverso la comunicazione con sé stesso, gli altri e il mondo, trasformandola da disfunzionale in funzionale, al fine di poter “operare” su di essa. I “problemi” dell’uomo sono il prodotto dell’interazione tra soggetto e realtà, per cui risalire alle origini del problema è spesso fuorviante rispetto al trovare soluzioni.

Per questo motivo, il lavoro del terapeuta strategico si focalizza non su “perché esiste” il problema, ma su “come funziona”, e specialmente su “come fare” per risolverlo, guidando la persona a cambiare non solo i propri comportamenti ma anche le proprie modalità percettive e di attribuzione causale. Il tutto passa prioritariamente attraverso il dialogo fra terapeuta e paziente; il primo guida il secondo a scoprire il modo di risolvere i suoi problemi, facendo in modo che li percepisca da prospettive diverse rispetto a quelle patogene.

Il costrutto operativo fondamentale di tale approccio è quello di “tentata soluzione” formulato per la prima volta dal gruppo di ricercatori dell’M.R.I (Mental Reserch Institute) di Paolo Alto (Watzlawick, Weakland, Fisch, 1974; Weakland at al., 1974); le tentate soluzioni solo le reazioni e i comportamenti che complicano piuttosto che risolvere, e che finiscono per irrigidirsi in ridondanti modelli disfunzionali d’interazione con la realtà.

La tentata soluzione disfunzionale sostituita da una soluzione funzionale diviene la chiave per studiare le “trappole” – mentali, emotive, relazionali – in cui l’essere umano incorre, e al contempo per individuare le leve strategiche del cambiamento, “conoscere i problemi mediante la loro soluzione” (Nardone, 1993).

Crediamo che al lettore sia già apparso chiaro quanto ciò entri in collisione con il concetto tradizionale di psicoterapia, basato sul presupposto che per cambiare l’atteggiamento di una persona si deve prima cambiare il suo modo di pensare. In base a tale presupposto, le varie forme di psicoterapia – cognitive, comportamentali o psicoanalitiche – mirano a realizzare il cambiamento della consapevolezza dei loro pazienti, in maniera coerente con i rispettivi assunti teorici; ciò implica l’uso del ragionamento e del linguaggio indicativo, il linguaggio della descrizione, della spiegazione, del confronto, dell’interpretazione e così via.

Da una prospettiva strategia invece il cambiamento va prima di tutto “agito”, e la comunicazione terapeutica diviene il suo veicolo; in sintesi, si tratta di “Fare le cose con le parole” (Austin, 1987).

La prima seduta non più “diagnostica” e “preliminare” per l’intervento, ma essa stessa stratagemma terapeutico. L’indagine si è trasformata in intervento.

Le domande, invece di limitarsi a guidare il terapeuta alla comprensione del problema da risolvere, sono divenute il veicolo per indurre il paziente a “sentire” differentemente le cose e dunque a cambiare le sue reazioni, scoprendo le sue risorse, che erano bloccate dalle percezioni precedenti, rigide e patogene.

Le domande sono state modificate nella loro forma interrogativa.
  • Non sono più aperte, del tipo: “Quando lei ha il suo attacco di panico, cosa sente?”
  • ma domande chiuse, in una sorta di illusione di alternative “Quando lei ha l’attacco di panico sente la paura di morire o la paura di perdere il controllo?”; in tal modo le persone rispondono una delle due risposte pianificate.

Immaginiamo che la risposta del paziente sia: “Ho paura di perdere il controllo”.

La seconda domanda sarà: “Ma questi momenti in cui lei ha paura di perdere il controllo accadono in situazioni che lei può prevedere o sono assolutamente imprevedibili?”.
La persona il più delle volte risponde: “Mah … non so! … però se ci penso bene, solo in certe situazioni!”.
E allora si ripete: “e lei può prevedere queste situazioni?”.
Il paziente dice: “Sì, ora che ci penso sì. Ad esempio mi allontano da solo … oppure se sono in mezzo alla folla … o se sono in un luogo chiuso … o se sono in un luogo alto …” a seconda del tipo di fobia.


Proviamo ad analizzare adesso cosa abbiamo ottenuto con due domande: abbiamo ottenuto una conoscenza già corposa, poiché ora sappiamo che la persona non ha paura di morire ma ha paura di perdere il controllo, e che questo avviene in situazioni che può prevedere. Questa è la comprensione da parte del terapeuta: il paziente, invece, inizia ad avere una chiara mappa del suo problema, con coordinate precise e comincia a pensare che, in realtà, non ha paura di morire – già lo sapeva, ma adesso lo ha focalizzato – e che tale fobia avviene solo in situazioni prevedibili. 

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Il dialogo strategico - Giorgio Nardone


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