Piuttosto che basarsi su una
teoria della natura umana per “analizzare” il comportamento, il modello
strategico di terapia si occupa del modo in cui l’uomo percepisce e gestisce la
propria realtà attraverso la comunicazione con sé stesso, gli altri e il mondo,
trasformandola da disfunzionale in funzionale, al fine di poter “operare” su di
essa. I “problemi” dell’uomo sono il prodotto dell’interazione tra soggetto e
realtà, per cui risalire alle origini del problema è spesso fuorviante rispetto
al trovare soluzioni.
Per questo motivo, il lavoro del
terapeuta strategico si focalizza non su “perché esiste” il problema, ma su
“come funziona”, e specialmente su “come fare” per risolverlo, guidando la
persona a cambiare non solo i propri comportamenti ma anche le proprie modalità
percettive e di attribuzione causale. Il tutto passa prioritariamente
attraverso il dialogo fra terapeuta e paziente; il primo guida il secondo a
scoprire il modo di risolvere i suoi problemi, facendo in modo che li
percepisca da prospettive diverse rispetto a quelle patogene.
Il costrutto operativo
fondamentale di tale approccio è quello di “tentata soluzione” formulato per la
prima volta dal gruppo di ricercatori dell’M.R.I (Mental Reserch Institute) di
Paolo Alto (Watzlawick, Weakland, Fisch, 1974; Weakland at al., 1974); le
tentate soluzioni solo le reazioni e i comportamenti che complicano piuttosto che risolvere, e che finiscono per irrigidirsi
in ridondanti modelli disfunzionali
d’interazione con la realtà.
La tentata soluzione disfunzionale sostituita da una soluzione
funzionale diviene la chiave per studiare le “trappole” – mentali, emotive, relazionali
– in cui l’essere umano incorre, e al contempo per individuare le leve
strategiche del cambiamento, “conoscere i problemi mediante la loro soluzione”
(Nardone, 1993).
Crediamo che al lettore sia già
apparso chiaro quanto ciò entri in collisione con il concetto tradizionale di
psicoterapia, basato sul presupposto che per cambiare l’atteggiamento di una persona
si deve prima cambiare il suo modo di pensare. In base a tale presupposto, le
varie forme di psicoterapia – cognitive, comportamentali o psicoanalitiche –
mirano a realizzare il cambiamento della consapevolezza dei loro pazienti, in
maniera coerente con i rispettivi assunti teorici; ciò implica l’uso del
ragionamento e del linguaggio indicativo, il linguaggio della descrizione,
della spiegazione, del confronto, dell’interpretazione e così via.
Da una prospettiva strategia
invece il cambiamento va prima di tutto “agito”, e la comunicazione terapeutica
diviene il suo veicolo; in sintesi, si tratta di “Fare le cose con le parole”
(Austin, 1987).
La prima seduta non più
“diagnostica” e “preliminare” per l’intervento, ma essa stessa stratagemma
terapeutico. L’indagine si è trasformata in intervento.
Le domande, invece di limitarsi a
guidare il terapeuta alla comprensione del problema da risolvere, sono divenute
il veicolo per indurre il paziente a “sentire” differentemente le cose e dunque
a cambiare le sue reazioni, scoprendo le sue
risorse, che erano bloccate dalle percezioni precedenti, rigide e patogene.
Le domande sono state modificate nella loro forma
interrogativa.
- Non sono più aperte, del tipo: “Quando lei ha il suo attacco di panico, cosa sente?”
- ma domande chiuse, in una sorta di illusione di alternative “Quando lei ha l’attacco di panico sente la paura di morire o la paura di perdere il controllo?”; in tal modo le persone rispondono una delle due risposte pianificate.
Immaginiamo che la risposta del paziente sia: “Ho
paura di perdere il controllo”.
La seconda
domanda sarà: “Ma questi momenti in cui lei ha paura di perdere il
controllo accadono in situazioni che lei può prevedere o sono assolutamente
imprevedibili?”.
La persona il più delle volte risponde: “Mah … non
so! … però se ci penso bene, solo in certe situazioni!”.
E allora si ripete: “e lei può prevedere queste
situazioni?”.
Il paziente dice: “Sì, ora che ci penso sì. Ad
esempio mi allontano da solo … oppure se sono in mezzo alla folla … o se sono
in un luogo chiuso … o se sono in un luogo alto …” a seconda del tipo di fobia.
Proviamo ad analizzare adesso cosa abbiamo ottenuto
con due domande: abbiamo ottenuto una conoscenza già corposa, poiché ora
sappiamo che la persona non ha paura di morire ma ha paura di perdere il
controllo, e che questo avviene in situazioni che può prevedere. Questa è la
comprensione da parte del terapeuta: il paziente, invece, inizia ad avere una
chiara mappa del suo problema, con coordinate precise e comincia a pensare che,
in realtà, non ha paura di morire – già lo sapeva, ma adesso lo ha focalizzato
– e che tale fobia avviene solo in situazioni prevedibili.
...
Il dialogo strategico - Giorgio Nardone
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