Karl Pribram, viennese di nascita (1929), si mise alla ricerca della memoria, ossia di dove era situata la nostra memoria.
Inizialmente, negli anni ’40, si presumeva che la memoria fosse in punto del cervello e che ogni tipo di memoria (engrammi) si situasse tra le cellule celebrali.
Per Panfield tutto quello che viviamo e di cui siamo coscienti è registrato nel cervello.
Pribram non dubitava di ciò ma nel 1946 collaborando con Lashley, ebbe modo di vedere che le ricerche di quest’ultimo confutavano quelle di Panfield.
Lashley addestrava i topi a percorrere un labirinto, poi rimuoveva chirurgicamente parti del cervello e li rimetteva sul labirinto, ma non importava quanta parte di cervello asportava, al topo non si cancellava mai la memoria.
Certamente le capacità motorie erano compromesse ma la memoria no.
Pribram concettualizzò che la memoria non ha una sola situazione, ma è dunque distribuita. Anche se venivano rimosse parti dei lobi temporali (importanti negli studi di Panfield) non c’erano buchi nelle memorie dei pazienti.
Come era possibile? A metà degli anni ’60, Pribram, lesse un articolo di Scientific American che descriveva la costruzione del primo ologramma – si sentì come folgorato!
L’ologramma è possibile grazie ad un fenomeno chiamato “interferenza”, che è lo schema creato da due o più onde che si incrociano. Qualunque fenomeno ondulatorio può creare uno “schema di interferenza”, anche le onde luminose e le onde radio.
Come si ottiene un ologramma?
Un raggio laser viene separato in due raggi distinti. Il primo rimbalza sull’oggetto che si desidera fotografare. Il secondo si va invece a scontrare con la luce riflessa del primo. Questo crea uno “schema d’interferenza” che viene impresso su una superficie fotosensibile.
A prima vista, l’immagine sulla superficie non assomiglia affatto all’oggetto fotografato.. anzi sembra proprio la serie di onde prodotta dal sasso nello stagno … ma non appena un raggio laser attraversa la superficie, ecco apparire un’immagine tridimensionale dell’oggetto fotografato!
Si può persino camminarci intorno e vederla da differenti angolazioni, come fosse un oggetto reale.
Naturalmente, se si tenta di afferrare l’immagine, ci si rende conto che non c’è niente fuorché aria.
La tridimensionalità non è il solo aspetto significativo dell’ologramma. Se un pezzo di pellicola sensibile olografica con impressa, ad esempio, l’immagine di una mela, viene tagliata a metà e poi illuminata con una luce laser, ognuna delle due metà contiene ancora tutta l’immagine della mela! Anche continuando a dividere le metà in parti sempre più piccole, in ogni pezzo si continua a poter ricostruire l’intera mela, anche se l’immagine diventa via via più confusa.
A differenza della fotografia normale, ogni piccolo pezzo della pellicola olografica contiene l’informazione dell’intera immagine.
Era proprio questo a rendere Pribram così eccitato! Finalmente poteva cominciare a comprendere la maniera in cui la memoria si distribuisce nel cervello!
Se un pezzettino di pellicola olografica è in grado di trattenere l’informazione dell’intera immagine, allora, pensava Pribram, anche ogni parte del cervello è in grado di trattenere l’informazione che può richiamare un’ intero ricordo.
La memoria non è la sola cosa che il nostro cervello processa in modo olografico: anche la vista è olografica!
Una delle scoperte di Lashley è che i centri visivi del cervello resistono in modo sorprendente a rimozioni chirurgiche: nel ratto, persino rimuovendo il 90% della corteccia visiva (la parte del cervello che riceve ed interpreta ciò che vede l’occhio), scoprì che l’animale poteva ancora compiere attività che richiedevano abilità visive evolute.
All’epoca, si pensava che ci fosse una corrispondenza 1:1 tra l’immagine vista dall’occhio ed il modo in cui questa immagine viene rappresentata nel cervello. In altre parole, se una persona guardava un quadrato disegnato sulla carta, si credeva che l’attività elettrica nella corteccia assumesse essa stessa una forma quadrata.
Sebbene le scoperte di Lashley sembrassero seppellire per sempre questa interpretazione, Pribram non era ancora soddisfatto: a Yale escogitò degli esperimenti per misurare con cura l’attività elettrica nel cervello delle scimmie, mentre compivano vari compiti visivi. Non solo confermò che non esiste assolutamente la corrispondenza 1:1, ma persino che non c’era nemmeno alcuno schema riconoscibile nel modo in cui gli elettrodi venivano attivati.
Pribram scrisse “Gli esperimenti sono incompatibile con l’interpretazione secondo cui una immagine di tipo fotografico viene proiettata sulla superficie della corteccia”.
Di nuovo, la resistenza della corteccia visiva alla rimozione chirurgica suggeriva che anche il senso della vista, esattamente come la memoria, è in qualche modo distribuito … Pribram, dopo aver preso conoscenza del procedimento olografico, parlò di “vista olografica”.
La natura dell’ologramma per cui “il tutto è in ogni sua parte” sembrava aprire alla spiegazione di come potesse essere rimossa una parte così enorme della corteccia, senza compromettere la vista. Se il cervello processa le immagini creando una qualche specie di ologramma interno, persino una piccola parte dell’ologramma potrebbe riuscire a ricostruire l’intera immagine che l’occhio ha davanti a sé.
Ma che genere di attività “ondulatoria” può mai compiere il cervello, per creare questi ologrammi interni?
Pribram concepì una risposta: era noto che le comunicazioni elettriche che avvengono tra i neuroni del cervello non succedono da sole; i neuroni posseggono ramificazioni, e quando il segnale elettrico raggiunge la fine di uno di questi rami, si irraggia all’esterno, come le onde in uno stagno. Siccome i neuroni sono compressi in uno spazio molto ridotto, si crea una espansione di queste onde – ed è un fenomeno ondulatorio – che continuano tra di loro ad incrociarsi, creando, secondo Pribram, un caleidoscopio quasi infinito di effetti di interferenza … potrebbe essere questo a dare al cervello le sue proprietà olografiche.
Osserva Pribram: “L’ologramma è lì da sempre, nella natura ondulatoria delle connessioni neurali, semplicemente non siamo mai stati abbastanza svegli da rendercene conto”.
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