URGENZA
DELLA RICERCA SOVRASENSIBILE
Mondo antico
e indagine moderna
La natura dell’uomo moderno è “priva di
spirito”, per il fatto che lo spirito si è incentrato nel processo di
autocoscienza (e solo questa, interiorizzandosi, potrebbe far risorgere il
sovrasensibile dalla natura: chi conosca l’opera scientifica di Goethe si trova dinnanzi alle premesse per
un’esperienza del genere).
La situazione del mondo antico era l’opposto:
la natura era permeata di spirito: non era natura. L’uomo accoglieva le
correnti sovrasensibili nelle corporeità, nella razza, nel sangue: non gli era
necessaria l’autocoscienza, poiché poteva riferire se stesso al divino che
vedeva sorgere dal sangue.
Si può dire che il Divino, fluendo nel suo
essere fisico, suscitasse in lui visioni o ispirazioni; ma si trattava di un
organismo non ancora densificato sino alla formazione di un compiuto sistema
neuro-sensorio, epperò tramite di forze che non poterono più fluire
direttamente in lui quando egli cessò di trarre la coscienza di sé da un centro
interiore (cuore) per averla da un supporto fisico (cervello).
Se la costituzione interiore dell’uomo
moderno si fonda sulla inversione della polarità originaria uomo-cosmo,
individualità-natura, onde la natura comincia ad essere veduta come mondo
esteriore – inversione che ha inizio all’epoca del Buddha,
di Lao-tze e di Confucio
in Oriente, del filosofare presocratico in Occidente – è comprensibile come
l’elemento eterno che prima traspariva attraverso la natura, ora si esprima in
un’attività interiore che in un certo modo di oppone ad essa.
In tal senso, secondo l’espressione di un
pensatore occidentale, bensì la “falsa memoria” di esso, dovuta a quel
rovesciamento di visione onde il mondo antico non può più essere conosciuto per
quel che effettivamente era, e la propria vita trascorsa viene ricordata come
la serie delle reazioni soggettive ad eventi non conosciuti nella loro
sostanza: falsa memoria, dunque, che solo può rivelarsi con un suo delle forze
della memoria rispondente alla scaturigine delle forze stesse.
Chi sia interiormente fondato, non può cadere
nella illusione di ritrovare nel sub-conscio l’elemento originario, ma sa di
ritrovarvi solo “falsa memoria”, quella che insiste come abitudine atavica,
inclinazione, istinto, persino come radice delle malattie organiche: un mondo
che non è l’Io, non l’”essere centrale”, ma la sua vecchia spoglia, in cui ora
tende a manifestarsi tutto ciò che come corrente cosmica inferiore lo avversa e
lo irretisce. È la natura, l’antica “scorza” dello spirituale, che, non
riconosciuta, tende a usare come veicolo lo spirituale oggi appena risorgente
nella forma dell’autocoscienza: d’onde gli equivoci della scienza e della
cultura moderne, l’equivoco di una psicologia che nei residuo degenerescenti di
una coscienza mitogena crede ritrovare contenuti attuali dell’io, mentre
dovrebbe qui riconoscere una “zona” manovrata da forze che, portate ad
insistere nel loro antico movimento, agiscono contro la nascente autocoscienza,
ossia contro la possibilità positiva della inversione della polarità
umano-cosmica accennata: forze perciò ostacolartici dell’uomo, che tendono ad
annientare l’io, sottraendogli vitalità e usandola contro esso.
Si tratta di contenuti che dovrebbero venir
sollecitati mediante una identificazione astratta e dialettica ma permanere
nell’inconscio, in vista di una loro estinzione, necessaria al processo
superiore della coscienza: si estinguono soltanto se possono essere oggetto di
un conoscere soprasensibile, capaci di contemplarli per quello che
effettivamente sono.
Ma è chiaro che nessun astratto pensiero,
nessuna attività semplicemente razionale, ha il potere di vedere e risolvere
l’identificazione sottile della vita psichica con essi: identificazione che
perciò può acquisire persino giustificazione scientifica e divenire moderna
psicologia.
Superstizione
contemporanea
La sostanza mitica è essenzialmente diversa:
occorre distinguere il mito in quanto veste imaginativa di percezioni
extra-sensibili (mondo antico), dal mito che è proiezione spirituale di
percezione sensibili, ossia la loro idealizzazione e trasposizione imaginativa
(mondo moderno), secondo un “ideale” che non può essere attinto se non
dall’esperienza sensibile. L’uomo moderno ritiene reale soltanto ciò che può
percepire con i sensi fisici: per lui ogni rappresentazione mitica non è che la
dignificazione di quel che percepisce. E ciò che percepisce per ora non è altro
che il “cadavere dell’antica natura”: non è quel che l’uomo antico percepiva
come natura vivente.
L’illusoria
“metafisica”
Normalmente, all’occidentale, la sua capacità
conoscitiva appare soggettiva, astratta, priva di forza vitale: per esso è il
mondo esanime delle argomentazioni, delle ragioni, fuori qualcosa di più, ossia
vitalità e concretezza, non suppone che l’attività interiore con cui pensa
fluisce dalla sorgente stessa della vitalità e della concretezza, e si rivolge
a un’altra direzione. Di solito cerca dottrine orientali che giustifichino
questo suo rifuggire l’astrattezza e al tempo stesso gli diano modo di portarsi
oltre l’astratto, mediante un presunto superamento del “mentale” (un mondo di
dottrine orientali, perciò, che sarà da lui veduto secondo insufficienza
interiore rispetto alla sua propria natura di occidentale) o si consola con una
filosofia, di tipo esistenzialistico, o con una psicoanalisi, o una psicologia
analitica. Nell’uno o nell’altro caso egli evita l’autentico sperimentare
interiore che è penetrare la sostanza della vita mediante un pensare capace di
non presupporre da sé la serie degli oggetti e perciò di afferrare se stesso:
senza avvertirlo, si appaga di associazioni di “pensati” unificate in sistemi,
rimanendo sostanzialmente alla visione di una molteplicità priva di unità
essenziale e a un mondo di “sensazioni” piò o meno nobilitante: che tuttavia
non riconosce come tali e che per lui, anche se non se ne avvede, possono
essere qualcosa unicamente in quanto le assume
in pensieri o come contenuti di idee, ossia per quell’elemento irriconosciuto,
in sostituzione del quale si illude di trovare altre vie.
In nessuno di questi casi l’occidentale segue
veramente la sua vocazione. Il macchinismo, l’agnostico razionalismo,
l’attivismo proprio a una vita esclusivamente utilitaria, spoglia di autentici
sentimenti, costituiscono un mondo che non può essere rettificato o esorcizzato
mediamente una “conoscenza” la cui stessa scelta è in partenza legata a un
conoscere formatosi in esso: nel mondo che si pretende superare. Questo arido
razionalismo nato dall’occidentale, come riflessità del pensiero, chiede di
essere risolto appunto nella sede del suo manifestarsi, mediante la conversione
di un processo che riguarda unicamente lui in quanto moderno. Si tratta in
definitiva di forze che vanno ricercate là dove sorgono come vivente realtà,
non ancora alterate o negate nella forma alla quale si debbono vincolare per
divenire coscienti.
Le latenze psichiche (vâsanâ), la prakriti
inferiore, la mâyâ, proprie dell’occidentale, sono ben altra cosa che per il tipo
umano contemplato nella tradizione indù, al quale tali nozioni si riferivano.
Il processo di materializzazione e la
conseguente esperienza di pensiero realista, pragmatista, scientista, sono
qualcosa di ancora più profondo nella loro negatività che non quanto è
contemplato come illusione del sensibile in quella tradizione. Come si
mostrerà, proprio grazie alla presenza di forze più essenziali, l’occidentale
ha potuto sostenere il peso dell’esperienza tellurico-meccanica e di
conseguenza sollecitare radicalmente le correnti della vita volitivo-istintiva.
Il compito, pertanto, non è eludere l’esperienza, ma prender coscienza delle
forze in essa richiamate: che, non riconosciute, travolgono l’uomo.
La vera
metafisica
Suggerire come via al cercatore occidentale
una “conversione” secondo metafisiche orientali non può essere che un mitico
filosofare: una simile richiesta può essere ravvisata espressione essa stessa
della logica astratta, ossia di quel pensiero occidentale che, inconsapevole
del proprio processo, continuerà a interpretare dottrine e pratiche,
rinunciando alla coscienza di sé e contemplando un cosmo spirituale
indipendente dall’attività conoscitiva vera suscitatrice dell’esperienza. Se
contenuti eterni sono in quelle metafisiche, essi possono risorgere unicamente
grazie a un atto interiore che non è mistica sensibilità, difficilmente chiara
e consapevole, bensì sublimazione di un pensiero di fattura tipicamente
occidentale: quello stesso che, rivolto al mondo sensibile, limitandosi
all’indagine fisica, dà l’odierna tecnica.
Il compito non è ignorare tale pensiero,
eliminarlo o ridurlo al silenzio (come del resto potrebbe essere estromesso, se
simultaneamente viene chiamato a interpretare le dottrine metafisiche e a
decidere la scelta di una disciplina, compresa quella che vorrebbe eliminarlo o
ridurlo al silenzio?) ma percepirlo in quella essenza che è presente in ogni
suo momento, come trascendenza che vi immane. Averla nella sua realtà significa
educarsi a guardarla meditativamente là dove non è ancora legata ad alcun
contenuto sensibile. Sperimentarlo è allora la via al “sopra-individuale”, in
quanto si lasciano a se stesse le categorie psico-somatiche – le quali non
debbono minimamente intervenire nell’esperienza interiore come invece esige lo
Yoga tradizionale – donando se stessi alla contemplazione di quel che ha inizio
come trascendimento del pensiero nel pensiero.
Una simile contemplazione, ove si renda
profonda nella sua purità, diviene visione del fondamento, che è la storia del
Logos e della sua “presenza terrestre”. Si potrà mostrare infatti come
l’esperienza realizzi l’ispirazione segreta dell’impresa allusa nella
simbologia del Graal e da questa figurata come compimento finale della
reintegrazione dell’uomo, quale si può cogliere nel tempo, nelle forme diverse
della eterna rivelazione.
Quando si ritiene che la realtà
sovrasensibile possa essere ritrovata mediante un superamento del razionalismo
– che non viene mai veramente effettuato da chi non conosca la funzione ultima
della razionalità – mentre si presume accedere a un sâdhana che si è potuto in
qualche modo conoscere proprio con l’ausilio della ragione, si dimostra di
voler cercare lo spirito ovunque, fuorché nel veicolo attraverso il quale
concretamente comincia a mostrarsi. L’occidentale non può ignorare il mondo
delle idee che il lui si fa essere e coscienza di essere, né può rinunciare al
valore del percepire sensibile producentesi di continuo grazie a tale
“coscienza di esistere”, è stimolata dal percepire sensorio.
Egli non può giungere a dissolvere la mâyâ
col rinunciare a quella coscienza di sé che là dove si limita alla sua forma
astratta è appunto suscitatrice della mâyâ, in quanto solo per questa il mondo
appare scisso in una dualità: soggetto e oggetto, spirito e natura, io e
non-io. col rinunciare a riconoscere l’illusorietà nella zona della coscienza
in cui ha origine, l’occidentale la lascia intatta alla radice di sé: per cui
cerca “fuori” lo spirituale che già nel suo cercare, come pensiero, affiora.
Nell’esperienza ordinaria, idea e percezione
si presentano separate, in quanto non si avverte come la percezione già sorga
permeata di attività ideale e in quanto artificiosamente vengono assunte come
due sfere distinte da un intelletto che ignora il suo moto immediato nel
percepire ed ha accettato come sua ed universale la dimensione sensibile. Solo
un simile intelletto può rappresentarsi una natura senza spirito, avendo da
essa separato senza avvertirlo la vita delle idee, che si è fatta sua astratta
coscienza. Per la coscienza di sé l’uomo ha tolto al mondo e trasformato in sua
personale razionalità la corrente vitale delle idee, riducendole ad astrazioni,
soggettivizzandole e ritenendole sue, rinunciando alla possibilità che esse,
acquisendo la loro intima vita (via della concentrazione e della meditazione)
rivelino la loro obiettiva appartenenza alle cose. Perciò le cose sono cose, la
natura appare natura, l’essere esistere: modo di vedere, che è solo una novità
dell’uomo moderno e da cui era immune l’uomo antico. Così la materia appare una
realtà in sé, con un suo fondamento in sé, naturalmente sognato o
inconsciamente imaginato, per cui si è “realisti primitivi” anche quando ci si
crede spiritualisti e quando si critica il “materialismo”. È notevole però come
in un simile equivoco non incorresse, per esempio, Goethe allorché contemplò la
natura, guardandola con quello “sguardo puro” con cui un tempo avrebbe potuto
guardarla un maestro Ch’an, grazie ad un altro tipo di correlazione.
Conoscenza
creatrice
Il mondo che si sperimenta mediante i sensi
può realmente manifestare l’essenza nell’anima dell’uomo: gli enti e le cose
possono esprimere in forme tessute di puro pensiero il loro principio, entelécheia,
normalmente celato all’esperienza esteriore e la pensiero riflesso. Il suo non
rivelarsi immediato è l’inganno per cui si crede privo di vita il pensiero
senza oggetto, o “pensiero puro”, e, invece, reale il suo aspetto astratto,
appunto perché riveste un contenuto ed è traducibile in discorso, proiettabile
in una logica; mentre alla osservazione interiore risulta vero l’opposto:
vitale ed obiettivo è il pensiero puro: esso è il vero contenuto.
L’inganno può essere gradualmente superato
grazie alla disciplina del pensiero fondata sulle leggi stesse del pensare, che
non sono un mondo di giudizi o di categorie, bensì l’universale che li motiva e
li muove. L’essenza della natura, immanifesta e simultaneamente manifesta nelle
forme esistenti, può esprimersi nell’uomo, solo che geli sappia aprirsi al
movimento del pensiero dapprima affiorante come concetto, ossia nella orma
riflessa, o astratta, riguardo all’oggetto: movimento che, animandosi, opera in
lui come veste dell’essenza. Colui che possa far incontrare in sé il puro
contenuto sensibile con il movimento di pensiero che gli corrisponde e per esso
di desta, giunge ad avere come percezione le forze originarie del mondo: non
può più contraddirle, perché le ha obiettivamente nel pensare integrato. Allora
egli è sulla linea dell’ati-dharma, è liberato di leggi. Che
la rivelazione dell’essenza si presenti da prima come concetto, o segno
astratto, a cui la coscienza ordinaria si arresta, si deve alla limitata e
provvisoria capacità di visione dell’uomo contemporaneo che, in effetto, si
trova appena sulla soglia della vita del pensare. L’esperienza onde può essere
varcata la “soglia” è infatti lo yoga
che l’occidente può perseguire senza rinunciare alla sua natura, ma perciò
stesso non è lo yoga della
tradizione, bensì l’esperienza sovrasensibile additata dalla Scienza dello Spirito,
dalla quale facciamo riferimento.
Dipende da una condizione transitoria che
l’essenza unitaria del mondo si manifesti nell’uomo attraverso una dualità, il
veicolo dei sensi e quello del pensiero – la “spada spezzata” della conoscenza
– per cui ciascuno dei due aspetti, prevalendo con esclusione dell’altro, è
errore, mentre è vero nel suo riferimento di profondità all’altro. Di questa
dualità l’origine, l’essenza, è una: tuttavia, il discepolo non accetta l’unità
come una dato mistico o vaga intuizione, ma solo in quanto egli possa
sperimentarla per attività propria, lasciando avvenire nella coscienza la sintesi
dei due poli dell’essere.
Fonte: La Via della Volontà Solare - Massimo Scaligero - Tilopa
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