IL DESTINO
FATO E
FATALISMO
“Ma se l’anima sceglie il proprio daimon e sceglie la propria vita, quale
capacità di decisione ci rimane?” si chiede Plotino. Dov’è la nostra libertà?
Tutto ciò che viviamo e chiamiamo nostro, tutte le nostre faticate decisioni
devono essere, in verità, predeterminate. Siamo intrappolati dentro il velo
dell’illusione, convinti di essere gli autori della nostra vita, quando invece
la vita di ciascuno è già scritta nella ghianda e noi non facciamo altro che
realizzare il piano segreto inciso nel cuore. La nostra libertà, si direbbe,
consiste soltanto nello scegliere ciò che la ghianda si prefigge.
Per sgomberare il campo da questa erronea
conclusione, chiariamo meglio la prerogativa del daimon, cerchiamo di essere più precisi circa l’ampiezza dei poteri
della ghianda. Su che cosa agisce e quali sono i suoi limiti? E per
“intenzione”, quando diciamo che si propone una particolare forma di vita, per
esempio, il teatro, la matematica, la politica? Ha in mente un termine ultimo,
magari addirittura un’immagine della cosa già realizzata e una data per la
morte? Se è così potente da determinare
fatalmente l’espulsione da scuola e le malattie infantili, che cosa intendiamo
per “determinismo”? e, infine, se è la ghianda a trasmettere il senso che le
cose non sarebbero potute essere altrimenti, che anche gli errori sono stati
necessari, che cosa intendiamo per “necessità”?
Il fatalismo è l’altra faccia, la grande seduzione,
dell’Io eroico, che in questa società del fai da te, dove l’asso piglia tutto,
ha già un tale peso sulle proprie spalle. Più pesante è il carico, più forte è
la tentazione di deporlo o di trasferirlo su un portatore più grosso e più
forte, il Fato per esempio.
In questa definizione paranoide della vita – la
vita come lotta, come competizione per la sopravvivenza, con l’altro come
alleato o nemico -, il fatalismo offre una pausa di respiro. Sta scritto nelle
stelle; c’è un disegno divino; quello che accade, accade per il meglio nel migliore
dei modi possibili.
Il mondo non pesa più sulle mie spalle, perché in
realtà lo porta il Fato e io sono in grembo agli dei, proprio come dice Platone
nel suo mito. Io vivo il particolare destino che è uscito dal grembo di
Necessità. Perciò non importa ciò che scelgo. Del resto, la mia non è vera
scelta; l’idea di scelta è un’illusione. La vita è predeterminata.
Questo modo di ragionare è fatalismo, e non c’entra niente con il fato. Riflette un sistema di
credenze, un’ideologia fatalista, non già le Moire, le Parche, che il mito
platonico ci mostra mentre suggellano il destino di ciascuno e avviano il daimon verso la nostra nascita. Esse non
predeterminano affatto i singoli eventi della vita, come se la vita fosse una
loro costruzione.
L’idea che la grecità aveva del fato semmai è
questa: gli eventi ci accadono, egli uomini “non possono capire perché una cosa
è accaduta, ma, visto che è accaduta, evidentemente – doveva essere –”.
Per i greci, la causa di tali infausti eventi
sarebbe il fato. Ma il fato causa soltanto gli eventi insoliti, che non
rientrano nello schema. Non è che ogni singolo evento fatto sia chiaramente
delineato in uno superiore disegno divino.
Meglio dunque immaginare il fato come una
momentanea “variabile che si interpone”.
Il fatto di scorgere la mano del Destino in quegli
eventi infausti ne eleva l’importanza e il senso, e consente una pausa di
riflessone. Invece, il credere che l’avere venduto nel momento sbagliato e
l’avere perso per un secondo decidono per te della tua vita: questo è fatalismo. Il fatalismo scarica tutto
sul destino.
I bastoncini dell’I Ching ti diranno che cosa il Fato vuole che tu faccia. Questo è fatalismo.
Il cogliere la strizzatina d’occhio del fato è un
atto di riflessione. È un atto del pensiero; mentre il fatalismo è uno stato
del sentimento, un abbandonare la ponderazione, l’attenzione per i particolari,
il ragionamento rigoroso. Anziché riflettere a fundo sulle cose, ci si abbandona
all’umore più generico della fatalità.
Il fatalismo consola, perché non fa sorgere
interrogativi.
Il termine greco per indicare il fato, moira, significa “parte assegnata,
porzione”. Così come il fato ha solo una parte in ciò che succede, allo stesso
modo il daimon, l’aspetto personale,
interiorizzato della moira, occupa
solo una porzione della nostra vita, la chiama a non la possiede.
La moira
non è in mano mia, è vero, ma è solo una porzione. Non posso abbandonare le mie
azioni, o le mie capacità e la loro realizzazione, nonché la loro frustrazione
o fallimento, a loro, agli dei e dee, o al volere della ghianda daimonica. Il
fato non mi solleva dalla responsabilità; anzi me ne richiede molta di più.
Non intendo l’affibbiare la colpa a una causa.
Quando i greci volevano analizzare un evento
infausto e oscuro, andavano dall’oracolo per domandare a quale dio o dea
dovessero offrire sacrifici in relazione al problema al progetto o all’affare
in questione.
In base a questo modello, l’analisi cerca di
scoprire quale Fato, o mano archetipica, chiede attenzione e commemorazione.
Fonte: Il codice dell'anima di James Hillman
Nessun commento:
Posta un commento